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Giuseppe Garibaldi, I Mille, il risorgimento italiano …

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Acquisto materiale su Giuseppe Garibaldi, spedizione dei Mille, medaglie, camicia rossa …

Giuseppe Maria Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 – La Maddalena, 2 giugno 1882) è stato un generale, patriota, condottiero e scrittore italiano. Figura rilevante del Risorgimento, fu uno dei personaggi storici più celebrati della sua epoca. È noto anche con l’appellativo di «eroe dei due mondi» per le imprese militari compiute sia in Europa, sia in America Meridionale.

La sua impresa più nota fu la vittoriosa spedizione dei Mille, che portò all’annessione del Regno delle Due Sicilie al nascente Regno d’Italia, episodio centrale nel processo di unificazione della nuova nazione. Massone di 33º grado del Rito scozzese antico ed accettato, favorevole all’ingresso delle donne in massoneria (tanto da iniziare sua figlia Teresita), ricoprì anche brevemente la carica di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia; dichiaratamente anticlericale, fu autore di numerosi scritti, prevalentemente di memorialistica e politica, ma pubblicò anche romanzi e poesie.

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza da una famiglia di origini genovesi il 4 luglio 1807, nell’attuale Quai Papacino, in un periodo in cui la relativa contea era sotto sovranità francese, poiché, in quegli anni, erano stati annessi da Bonaparte all’Impero tutti i territori continentali sabaudi. A Nizza fu battezzato il 19 luglio 1807 nella chiesa dei S.S. Martino e Agostino, situata nel quartiere attuale della Vecchia Nizza, e registrato come Joseph Marie Garibaldi, cittadino francese. La sua famiglia si era trasferita a Nizza nel 1770; il padre Domenico Garibaldi (1766-1841), originario di Chiavari, era proprietario di una tartana chiamata Santa Reparata. La madre Maria Rosa Nicoletta Raimondi (22 gennaio 1776-20 marzo 1852) era una figlia di pescatori originaria di Loano, nel 1807 territorio francese (sino al 1805 Repubblica Ligure), e morì a Nizza.

Giuseppe era il secondogenito di sei figli: Angelo (1804-1853), il fratello maggiore, divenne console negli Stati Uniti d’America, Michele (1810-1866) fu capitano di marina, Felice (1813-1855) rappresentante di una compagnia di navigazione e produttore di olio pugliese, Maria Elisabetta (1798-1799) e Teresa (1817-1820), morte in tenera età. Per diverso tempo, gli storici dettero credito a una versione,dimostratasi poi falsa, secondo la quale Garibaldi avrebbe avuto origini tedesche. La famiglia divideva con alcuni parenti, i Gustavin, una casa sul mare. Dell’infanzia di Giuseppe si hanno poche notizie, per lo più agiografiche. Risulta invece certa la notizia che a 8 anni salvò una lavandaia caduta in acqua e che il soccorso a persone in procinto di annegare fu una costante, tanto che ne salvò almeno 12.

Nel 1814 la casa dei Garibaldi fu demolita per ampliare il porto e la famiglia traslocò. Nizza fu restituita al Regno di Sardegna per decisione del Congresso di Vienna e restò sotto il governo dei Savoia fino al 1860. I genitori avrebbero voluto avviarlo alla carriera di avvocato, medico o sacerdote, ma Giuseppe non amava gli studi, prediligendo gli esercizi fisici e la vita di mare. Egli stesso ebbe a dire che era più amico del divertimento che dello studio. Vedendosi ostacolato dal padre nella sua vocazione marinara, durante le vacanze tentò di fuggire per mare verso Genova con tre suoi compagni: Cesare Parodi, Celestino Bernord e Raffaello de Andrè. Scoperto da un sacerdote che avvisò la famiglia della fuga, fu fermato appena giunto alle alture di Monaco e ricondotto a casa; è forse da ricondursi a questo episodio l’inizio della sua antipatia verso il clero.

Tuttavia, si appassionò alle materie insegnategli dai suoi primi precettori, padre Giaume e il “signor Arena”. Quest’ultimo, reduce delle campagne napoleoniche, gli impartì lezioni d’italiano e di storia antica (rimase affascinato soprattutto dalla Roma antica). Alla fine riuscì a persuadere il padre a lasciargli intraprendere la vita di mare e venne iscritto nel registro dei mozzi a Genova il 12 novembre 1821. Dall’iscrizione in quel registro, si rileva che l’altezza del quattordicenne Garibaldi era di 39 once e 3/4, pari a circa 170 cm, considerevole in rapporto all’età e all’altezza media dell’epoca.

Anche se la datazione del primo imbarco è incerta, risulta che il 13 gennaio 1824 si imbarcò sedicenne sulla Costanza, comandata da Angelo Pesante di Sanremo, che Garibaldi avrebbe in seguito descritto come il migliore capitano di mare. Nel suo primo viaggio, su un brigantino con bandiera russa, si spinse fino a Odessa nel mar Nero e a Taganrog nel mar d’Azov (entrambe ex colonie genovesi). Vi si recherà nuovamente nel 1833, incontrando un patriota mazziniano che lo sensibilizzerà alla causa dell’unità d’Italia. Rientrò a Nizza in luglio.

L’11 novembre partì per un breve viaggio come mozzo di rinforzo sulla Santa Reparata, costeggiando la Francia in un equipaggio di cinque uomini. Con il padre, tra aprile e maggio del 1825, partì alla volta di Roma con tappe a Livorno, Porto Longone e Fiumicino con un carico di vino, per l’approvvigionamento dei pellegrini venuti per il Giubileo indetto da papa Leone XII. L’equipaggio era composto da 8 uomini, ed ebbe la sua prima paga.

Navigazione

Iniziarono i numerosi viaggi marittimi di Giuseppe Garibaldi; fra quelli che rimasero più impressi al condottiero vi fu quello sul brigantino Enea, al cui comando vi era il capitano Giuseppe Gervino, durante il quale, in una tempesta, vide una feluca catalana, a cui non poterono prestare soccorso, sprofondare travolta dalle onde. Nel 1827, navigando con la Coromandel, raggiunse le Isole Canarie e nello stesso anno, a settembre, salpò da Nizza con la Cortese, comandata dal capitano Carlo Semeria, per il mar Nero ma durante il viaggio il bastimento fu assalito per tre volte dai corsari greci, che depredarono la nave, rubando persino i vestiti dei marinai, mentre il comandante non oppose la minima resistenza. In questo viaggio subì la sua prima lieve ferita in battaglia, evento forse ingigantito dalle fonti con il tempo.

Il viaggio comunque continuò e nell’agosto del 1828 Giuseppe Garibaldi sbarcò dalla Cortese a Costantinopoli dove, ammalato, rimase per circa tre anni; in quel periodo per sostenersi economicamente faceva l’istitutore, insegnando italiano, francese e matematica. Fra i motivi che lo fecero indugiare vi fu la guerra turco-russa, che chiuse le vie commerciali marittime; nel frattempo si integrò nella comunità italiana, grazie anche alla presenza di una sua concittadina, la signora Luisa Sauvaigo. Secondo le ricerche compiute dalla sua bisnipote diretta Annita Giuseppe Garibaldi, probabilmente frequentò la casa di Calosso – comandante della cavalleria del Sultano con il nome di Rustem Bey – e l’ambiente dei genovesi, che storicamente erano insediati nei quartieri di Galata e Pera. Ritornò a Nizza nella primavera del 1831. Appena giunto in città ripartì subito, imbarcandosi sulla Nostra Signora delle Grazie comandata dal capitano Antonio Casabona, prima come secondo: poi l’anziano capitano gli cedette il comando. Il 20 febbraio 1832 gli fu rilasciata la patente di capitano di mare di seconda classe.

Nello stesso mese si reimbarcò con la Clorinda per il mar Nero; si contavano venti uomini a bordo e la paga di Giuseppe fu di 50 lire piemontesi al mese mentre 100 toccarono al comandante, Simone Clary. Ancora una volta la nave fu presa di mira dai corsari ma questa volta l’equipaggio accolse gli aggressori a fucilate. Garibaldi fu ferito alla mano destra: avrebbe poi ricordato l’accaduto come il suo primo combattimento. Proprio sulla Clorinda conobbe Edoardo Mutru, suo compagno d’armi in futuro. Nel 1833 si contarono sui registri navali 72 mesi di navigazione effettiva. L’importanza dello spirito marinaro in Garibaldi è stata più volte sottolineata, gli scritti di Augusto Vittorio Vecchi, più noto con il nome di Jack la Bolina, influenzarono i successivi studiosi sull’argomento, egli che definiva il Mar Mediterraneo un ottimo insegnante, vedeva nell’eroe l’ingenuità degli uomini di mare in contrasto con la furbizia degli uomini di terra. Di parere simile era Pino Fortini, il quale affermò che il mare lo aveva formato ed educato moralmente.

Dopo 13 mesi di navigazione ritornò a Nizza, ma già nel marzo 1833 ripartì per Costantinopoli. All’equipaggio si aggiunsero tredici passeggeri francesi seguaci di Henri de Saint-Simon, imbarcati di notte e controllati dalla polizia affinché andassero in esilio nella capitale ottomana. Il loro capo era Emile Barrault, professore di retorica che espose le idee sansimoniane a un attento Garibaldi. Giuseppe Garibaldi, allora ventiseienne, fu molto influenzato dalle sue parole, ma Annita Garibaldi ipotizza che probabilmente quelle idee non gli giungessero del tutto nuove, essendogli note fin da quando aveva soggiornato nell’Impero Ottomano, luogo prescelto da tanti profughi politici dell’Europa e percorso esso stesso da fremiti di autonomia e di libertà. Tutto ciò contribuì a convincerlo che il mondo era percorso da un grande bisogno di libertà. Lo colpì in particolare Emile Barrault quando affermò:

«Un uomo, che, facendosi cosmopolita, adotta l’umanità come patria e va ad offrire la spada ed il sangue a ogni popolo che lotta contro la tirannia, è più di un soldato: è un eroe»

Il bastimento sbarcò i francesi a Costantinopoli e procedette per Taganrog, importante porto russo sul Mar d’Azov. Qui in una locanda, incontrò un uomo detto il Credente, che espose a Giuseppe Garibaldi le idee mazziniane. Le tesi di Giuseppe Mazzini sembrarono a Garibaldi la diretta conseguenza delle idee di Barrault ed egli vide nella lotta per l’Unità d’Italia il momento iniziale della redenzione di tutti i popoli oppressi. Quel viaggio cambiò la vita di Garibaldi; nelle sue Memorie scrisse: «Certo non provò Colombo tanta soddisfazione nella scoperta dell’America, come ne provai io al ritrovare chi s’occupasse della redenzione patria»

Vita da ricercato

Non si ha certezza storica del primo incontro fra Giuseppe Garibaldi e Mazzini; quello descritto nella sua biografia mostra alcune lacune: si racconta che un certo Covi condusse il primo dal rivoluzionario in un incontro tenutosi a Marsiglia nel 1833, ma la datazione non risulta credibile in quanto il marinaio sbarcò il 17 agosto 1833 a Villefranche-sur-Mer (all’epoca Villafranca marittima) mentre Mazzini si era già trasferito, da giugno, a Ginevra. Inoltre lo stesso genovese affermò che aveva sentito di Giuseppe Garibaldi solo tempo dopo, nel 1834.A quell’epoca i marinai mercantili dovevano obbligatoriamente prestare servizio per 5 anni nella marina da guerra; venivano agevolati coloro che avessero frequentato rotte che portavano all’estero, essi infatti potevano decidere quando iniziare tale periodo, in ogni caso la scelta doveva cadere prima dei quarant’anni di età. Garibaldi presentò la domanda nel mese di dicembre del 1833 diventando marinaio di terza classe. Garibaldi è ricordato a Genova con una statua equestre situata a Piazza De Ferrari

Il 16 dicembre si presentò a Genova e il 26 si imbarcò sull’Euridice dove rimase per 38 giorni. La divisa sarda nell’occasione era composta da un frac nero, una tuba, e un paio di pantaloni bianchi. Come marinaio piemontese, Giuseppe Garibaldi assunse il nome di battaglia Cleombroto, un re spartano che combatté contro Tebe nella Battaglia di Leuttra. Non era ancora iscritto alla Giovine Italia. In quel periodo tentò, con Edoardo Mutru arruolatosi anch’esso, e Marco Pe di fare propaganda alla causa cercando a bordo e a terra di fare proseliti.

Frequentò l’osteria della Colomba, la cui proprietaria Caterina Boscovich, insieme alla cameriera Teresina Cassamiglia, gli saranno d’aiuto in seguito. Fece sfoggio della sua attività, offrendo da bere a sconosciuti con l’intento di arruolare nella causa nuovi elementi, e fu visto in pubblico, al caffè di Londra, usare parole dispregiative verso il Re. Per tale comportamento venne sorvegliato dalla polizia. Il 3 febbraio 1834 fu poi imbarcato, insieme a Mutru, sulla Conte De Geneys, che stava per partire per il Brasile. Vi restò solo un giorno in quanto il 4 febbraio, fingendosi malato, scese a terra, dopo aver dormito all’Insegna della Marina con Mutru.

Nel frattempo si era stabilito che l’11 febbraio 1834 ci sarebbe stata un’insurrezione popolare in Piemonte. Giuseppe Garibaldi scese a terra per mettersi in contatto con i mazziniani; ma il fallimento della rivolta in Savoia e l’allerta di esercito e polizia fecero fallire tutto. Garibaldi credeva che l’insurrezione si sarebbe comunque avviata; non tornò sulla nave per parteciparvi, venendo siglato il termine A.S.L. (Assentatosi Senza Licenza) sulla sua matricola, e divenendo in pratica un disertore; tale latitanza venne considerata come ammissione di colpa. Attese un’ora in piazza prima di andarsene, trovando riparo prima a casa della fruttivendola Natalina Pozzo e successivamente all’osteria e alla casa della padrona, Caterina Boscovich. Intanto vengono arrestati il quasi omonimo Giuseppe Garibaldi (l’8 febbraio) e poi lo stesso Mutru, il 13 febbraio. Prima di allora, il 9 o l’11, lascia Genova.

Più volte nel corso della fuga sfuggì a eventuali catture, dopo aver superato il fiume Varo: la prima quando al confine venne condotto momentaneamente a Draguignan, poi in un’osteria dove cantò per sfuggire agli sguardi dell’oste che minacciò di farlo arrestare. Giunse infine a Marsiglia. Intanto venne indicato come uno dei capi della cospirazione, fu condannato alla pena di morte ignominiosa in contumacia in quanto nemico della Patria e dello Stato. Giuseppe Garibaldi divenne così un ricercato e in quel tempo visse per un breve periodo dal suo amico Giuseppe Pares. Continuò sotto falso nome, assunta l’identità dell’inglese Joseph Pane, a viaggiare: il 25 luglio salpò verso il mar Nero sul brigantino francese Union raccontando di essere un ventisettenne nato a Napoli.

Doveva svolgere l’attività di marinaio ma in realtà diventò secondo . Sbarcò il 2 marzo 1835, e in maggio fu in Tunisia. Quando tornò a Marsiglia trovò la città devastata da una grave epidemia di colera; offertosi come volontario, lavorò in un ospedale, in qualità di benevolo, e ci rimase per quindici giorni. In quel periodo conobbe Antonio Ghiglione e Luigi Canessa. Poiché le rotte erano chiuse in parte per via del colera, Garibaldi decise di partire alla volta del Sud America con l’intenzione di propagandare gli ideali mazziniani. L’8 settembre 1835 partì da Marsiglia sul brigantino Nautonnier, nave comandata da Beauregard, assumendo la falsa identità di Giuseppe Pane e affermando di essere nato a Livorno; data la sua paga di 85 franchi, si presuppone che non svolse in mare gli incarichi di marinaio la cui paga era inferiore.

Esilio in Sud America

Giunto a Rio de Janeiro nella fine del 1835 o nel gennaio del 1836, venne accolto dalla piccola comunità di italiani aderenti alla Giovine Italia, avvisati da Canessa poco prima; avviò quindi un piccolo commercio di paste alimentari nei porti vicini. La sua prima lettera venne spedita il 25 gennaio 1836. Cercò di instaurare un rapporto con Giuseppe Stefano Grondona, il «genio quasi infernale» come lo definirà lui stesso, senza però riuscirci, anche cedendogli la presidenza dell’associazione locale della Giovine Italia. Fondò una società con l’amico Luigi Rossetti, chiamato Olgiati.

Scrisse direttamente a Mazzini il 27 gennaio, in una lettera mai giunta a destinazione, chiedendo che rilasciasse «lettere di marca», un’autorizzazione ad avviare una guerra corsara contro i nemici austriaci e piemontesi, una richiesta impossibile da esaudire, ma senza le quali le sue azioni sarebbero state solo atti di pirateria. Parlò apertamente contro Carlo Alberto sul Paquete du Rio, curò le stampe della lettera mazziniana a Carlo Alberto e gli furono aperte le porte della loggia massonica irregolare Asilo di Vertud.

Nella Repubblica del Rio Grande del Sud

Nel febbraio del 1837 parlò con Livio Zambeccari, detenuto nella prigione Santa Cruz in quanto segretario di Bento Gonçalves, presidente della Repubblica Riograndense, stato secessionista del Brasile. Sarà l’inizio di una collaborazione ufficiale. Il 4 maggio 1837, ottenne una Lettera di corsa, la numero sei (avevano rilasciato un totale di 12 patenti), documento firmato dal generale João Manoel de Lima e Silva apparentemente firmata il 14 novembre 1836. Nell’atto si leggeva la lista dei 14 uomini autorizzati a utilizzare la lancia “Mazzini” di 20 tonnellate, il capitano designato era João Gavazzon (o Gavarron), mentre Garibaldi figurava come il primo tenente. A João risultava intestata anche un’altra nave, la “Farropilha”, di 130 tonnellate. ottenuta dal governo della Repubblica Riograndense (ora Rio Grande do Sul), ribelle all’autorità dell’Impero del Brasile guidato da Pedro II.

La nave comprata tempo prima grazie ai soldi di Giacomo Cris (vero nome di Giacomo Picasso con il quale si fece conoscere), era stata battezzata Mazzini, e con i soldi fruttati da una colletta, 800 lire verranno effettuate delle migliorie. Salperanno il 7 maggio, a bordo si contavano 12-13 uomini in tutto, fra cui il nostromo Luigi Carniglia, il timoniere Giacomo Fiorentino, João Baptista e Miguel un brasiliano che doveva pensare alle armi. Sul giornale Jornal do comercio si dava come destinazione del viaggio Campos e come comandante Cipriano Alves (altro nome assunto da Giuseppe Garibaldi) La prima preda fu una lancia da cui prese lo schiavo nero Antonio, che affrancò rendendolo libero. L’11 maggio i corsari avvistarono un semalo di centoventi tonnellate chiamato “Luisa” e lo abbordarono. Garibaldi e i suoi uomini portano le barche dalla laguna Los Patos al lago Tramandahy durante la guerra del Rio Grande do Sul.

Giuseppe Garibaldi rifiutò ogni bene che il capitano gli aveva offerto e non volle che i beni personali venissero toccati. Si continuò sulla nuova nave più grande che fu ribattezzata “Farropilha” (“Canaglia”), mentre quella vecchia venne fatta affondare. I prigionieri vennero fatti scendere in seguito, sull’unica lancia che avevano a disposizione, con loro il brasiliano che non si era reso conto del pericolo. Successivamente non si hanno notizie di altri abbordaggi e Giuseppe Garibaldi giunse a Maldonado il 28 maggio. Intanto le sue gesta si diffusero ma non portando dati corretti: a sentire il ministero della guerra e marina a Montevideo avrebbe liberato 100 schiavi neri. Garibaldi lasciò nella notte del 5-6 giugno la città, perché avvertito del pericolo della Imperial Pedro, che era alla ricerca dei corsari per arrestarli.

Partiti nuovamente, non si accorsero del malfunzionamento della bussola che li portò conseguentemente fuori rotta verso gli scogli all’altezza della punta de Jesús y María. Ottenuti con difficoltà dei viveri, il viaggio riprese; dovendo in qualche modo ovviare alla mancanza di una lancia, comprata poi in seguito, utilizzarono in sostituzione la tavola su cui si mangiava, barili vuoti e vestiti a far da vela. Il 15 giugno affrontarono un lancione, il Maria, salpato con l’intento di catturare il corsaro. Nel combattimento il timoniere incontrò la morte e Giuseppe Garibaldi, sostituitolo, venne ferito quasi mortalmente, perdendo i sensi. La battaglia la continuarono i rimanenti italiani, comandati da Carniglia, fino alla fuga. Altri marinai abbandonarono la nave, mentre l’eroe, ricevute le cure, si riprese.

Garibaldi scrisse al generale Pascual Echagüe chiedendo aiuto e ottenendolo in parte: la nave partì per Buenos Aires giungendovi il 20 ottobre e venne restituita al proprietario, mentre i corsari rimasti non potevano lasciare Gualeguay (Argentina), in quanto prigionieri del governatore Juan Manuel de Rosas. Nel frattempo imparò lo spagnolo. Tentata la fuga, fu catturato e torturato da Leonardo Millán, e rimase due mesi nel carcere di Bajada, dopo i quali fu rilasciato (febbraio 1838), per mancanza di prove. Raggiunti a Paraná Guazú i suoi amici Rossetti e Cuneo, seppe dell’arresto di João Gavazzon e di Giacomo Picasso. Nel maggio 1838 giunse a cavallo a Piratini, compiendo un viaggio di 480 km. Qui conobbe di persona Bento Gonçalves, rimanendone affascinato.

Si organizzò un cantiere navale lungo il fiume Camacuã: il capo dei lavori era John Griggs, di origini irlandesi, mentre Garibaldi divenne comandante della flotta. Due lancioni erano pronti al varo: il Rio Pardo (15-18 tonnellate), dove si imbarcò lo stesso Giuseppe Garibaldi, e l’Independencia, il cui equipaggio contava complessivamente circa 70 persone, tra cui Mutru e Carniglia. Partirono il 26 agosto 1838, e riuscirono a superare lo sbarramento posto dalle navi nemiche. Il 4 settembre avvistarono due navi nemiche: una di esse fuggì mentre l’altra, una sumaca chiamata La Miniera, si arrese. Vi era il problema della spartizione della preda: da dividere in tre parti secondo quanto scritto nell’accordo redatto da Rossetti, 8 (di cui una a Garibaldi) secondo quanto si decise alla fine, per decisione del ministro delle finanze Almeida. L’ammiraglio Greenfell, allarmato dall’accaduto, fece scortare ogni nave con quelle di guerra, mentre alla piccola flotta di Garibaldi si aggiunsero altre navi e altre erano in costruzione.

Il 17 aprile 1839, avvertiti dal grido «è sbarcato il Moringue» (così era chiamato il maggiore Francesco Pedro de Abreu, a cui era stato dato l’ordine di eliminare Garibaldi), sventarono un tentativo di imboscata, nonostante i nemici fossero favoriti dalla nebbia. Affrontarono i circa 150 uomini inviati, ferendo lo stesso Moringue e costringendoli alla ritirata: fu una vittoria che divenne celebre con il nome di (“Battaglia del Galpon de Xarqueada”). L’eco della vittoria venne ufficializzata dal rapporto del ministro della Guerra al parlamento brasiliano. Partecipò, quindi, in qualità di capitano tenente, alla campagna che portò alla presa di Laguna, il cui comando venne affidato al colonnello David Canabarro, della capitale dell’attigua provincia di Santa Caterina.

La tattica utilizzata fu singolare: si risalì il fiume Capivari, ingrossato dalle ultime piogge, facendo avanzare le navi per via terra, con l’aiuto di due carri preparati dentro alcune fosse, trainati fino a giungere alla laguna di Thomás José e scendere dal Tramandaí. Per tale progetto vennero scelti i due nuovi lancioni: Farroupilha (18 tonnellate, su cui dava gli ordini l’eroe) e il Seival (12 tonnellate, a cui comando si ritrova Griggs). Il 5 luglio inizia il trasporto via terra evitando al contempo l’attacco nemico che si stava preparando più avanti, terminerà l’11 luglio, tre giorni dopo il 14 luglio riprenderanno il mare. La nave di Garibaldi si rivela troppo pesante: il timone si spezza la nave si rovescia, è il 15 luglio 1839. Durante la tempesta annegheranno fra gli altri Mutru, Carniglia e Procopio (uno schiavo reso libero che aveva ferito il Moringue). L’assalto verrà condotto lo stesso con l’unico Lancione rimasto, il Seival, condotto da Giuseppe Garibaldi; di fronte hanno un brigantino e quattro lancioni. Si diresse verso sud portando le inseguitrici, consistenti in due lancioni, il Lagunense e l’Imperial Catarinense, in una trappola. Dei soldati nascosti nella fitta vegetazione assaltarono le navi e le conquistarono; vennero poi utilizzate per distrarre gli altri due lancioni, Santa Ana e l’Itaparica si arresero, il brigantino Cometà fuggì.

Il 25 luglio 1839 venne conquistata Laguna e con il suo nuovo nome, Juliana, venne proclamata la repubblica catarinense. Gli imperiali inviarono il maresciallo Francisco José de Souza Suares de Andrea con una flotta di 12 navi e tre lancioni: nei primi scontri venne ucciso Zeferino Dutra, uomo a cui Garibaldi aveva lasciato il comando del resto della flotta. L’eroe prese il comando della Libertadora rinominata Rio Pardo, mentre il Seival fu affidato a Lorenzo Valerigini. Occorrevano arrembaggi, ma vicino alla laguna vi era un blocco navale creato dagli imperiali, e per superarlo, il 20 ottobre si inviò una sumaca per distrarre le navi che partirono all’inseguimento lasciando il resto della flotta libero di agire.

In una di queste azioni si trovarono di fronte alla nave Regeneração che, con i suoi venti cannoni (le tre navi avevano un solo cannone ciascuno) mise in fuga le navi. Fuggirono per lo stesso motivo anche dalla Andorinha, si attendeva di ritornare alla laguna. Era il 2 novembre, il Rio Pardo tornò pochi giorni dopo. Guidò malvolentieri l’attacco alla cittadina Imaruí con l’intenzione di punirla del tradimento.

Il 4 novembre l’esercito imperiale forte di 16 navi con 33 cannoni complessivi e 900 uomini, riconquistò la città e i repubblicani, dopo aver incendiato le navi senza che i soccorsi richiesti fossero giunti, ripararono sugli altopiani, Griggs venne ucciso. Sulla terraferma i combattimenti continuarono, e furono i primi per Giuseppe Garibaldi: il 14 dicembre 1839 a Santa Vitória do Palmar attaccò con i suoi marinai il nemico e costringendolo alla ritirata; successivamente il 12 gennaio 1840, nei pressi di Forquetinha, Garibaldi, guidando la fanteria, soccorse con 150 uomini il colonnello Teixeira. Garibaldi radunò i sopravvissuti, 73 uomini in tutto, salì su un’altura e solo di notte gli inseguitori smisero la caccia. Marciarono per quattro giorni fino nei pressi di Vacaria e poi di nuovo al Rio Grande.

Nell’aprile del 1840 si radunarono i due eserciti nei pressi del fiume Taquari; 4 300 imperiali, al comando del generale Manuel Jorge Rodríguez che avrebbero affrontato 3.400 riograndesi, ma non ci fu alcuna battaglia. Si decise di attaccare San José do Norte, punto strategico di rifornimento. Dei quattro fortini disposti a difesa tre vennero distrutti in poco tempo, l’azione era guidata da Gonçalves con Teixeira. L’ammiraglio Greenfell inviò i rinforzi, allorché Garibaldi suggerì di bruciare la città ma l’idea non venne accolta; una volta fuggiti, il nizzardo si fermò su ordini dati a San Simón; poco dopo, il 24 settembre 1840, fu ucciso Rossetti. Giunto a São Gabriel, strinse amicizia con Francesco Anzani. Gli venne concesso di recarsi a Montevideo e di portarsi 1 000 buoi come bottino di conquista; riuscì a farne partire 900, ma negli oltre 600 km che percorse perse la maggior parte dei capi, solo 300 infatti giunsero a destinazione nel giugno del 1841 a causa dei ripetuti furti dei mandriani infedeli.

Giuseppe Garibaldi e la Guerra civile uruguaiana

Soggiornava in casa di amici. Non si conosce con esattezza quando Garibaldi entrò nella marina uruguayana, comunque quando avvenne gli venne conferito il grado di colonnello e gli venne affidata una missione: una volta partito da Montevideo via mare, doveva penetrare nel Paraná fino alla Bajada (l’odierna città di Paraná) e poi portare il bottino preso dalle navi incrociate a Corrientes, una missione definita «suicida».

Le navi erano tre: Constitución (di 256 tonnellate e 18 cannoni, comandata direttamente dal nizzardo), il brigantino Pereyra, comandato da Manuel Arãna Urioste, e la goletta mercantile Procida, comandata da Luigi De Agostini. Le tre imbarcazioni partirono il 23 giugno 1842. Durante il viaggio la Constitución si arenò e fu soccorsa dalla Procida mentre sopraggiunse la flotta argentina; si trattava dell’ammiraglio William Brown (1777 – 1857) al comando di sette navi, di cui una, la Belgrano, si arenò a sua volta. Fu grazie alla nebbia che Garibaldi e le altre navi riuscirono a fuggire nonostante il tentativo di inseguimento da parte di Brown che però si immise su una rotta errata.

La navigazione continuò nel Paraná dal 29 giugno e raggiunsero come da programma la Bajada il 18 luglio. Continuarono il viaggio superando il porticciolo di Cerrito. Le navi di Brown, a cui si aggiunsero quelle comandate dal maggiore Seguì, raggiunsero le navi del nizzardo vicino alla Costa Brava: da una parte 3 brigantini e 4 golette, con un totale di circa 700 uomini e 53 cannoni, mentre Giuseppe Garibaldi poteva contare su due delle tre navi in quanto la Procida si distaccò precedendoli a Corrientes, 29 cannoni e circa 300 uomini, entrambi avevano anche imbarcazioni minori.

Il 16 agosto Brown iniziò a fare fuoco. Risultano inutili i tentativi di resistenza; Urioste cercò di portare lo scontro sulla terra ma venne sconfitto, intanto Alberto Villegas con il suo gruppo fuggì. Dopo tre giorni di combattimenti, le navi vennero incendiate, ma alcuni dei corsari saltarono in aria con esse. Garibaldi si trasferì prima a Goya e, dopo vari spostamenti, il 19 novembre si ritrovò a Paysandú; qui ricevette l’ordine dal generale Felix Edmondo Aguyar di compiere alcune azioni militari. Venne poi richiamato a Montevideo, ma prima di raggiungerli dovette bruciare nuovamente la flottiglia che comandava. Giunto nel dicembre del 1842 con l’incarico di ricostruire la flotta perduta, con un attacco affondò il 2 febbraio 1843 un brigantino che faceva parte della flotta di Brown; pochi giorni dopo venne respinto un primo tentativo del generale Manuel Oribe; l’assedio iniziò il 16 febbraio 1843. Il 29 aprile, dopo aver rinforzato l’Isla de Ratas, si ritrovò di fronte il giorno dopo nuovamente Brown. L’ammiraglio contava su due brigantini e due golette, Garibaldi due imbarcazioni con un cannone ciascuno; gli inglesi intervennero salvandoli. Insegna della Legione Italiana in Uruguay (1846)

Alla fine dell’anno prese il comando della Legione italiana. Il colore scelto per le divise fu il rosso; la bandiera, un drappo nero rappresentava il Vesuvio in eruzione. In seguito venne tradito dal colonnello Angelo Mancini, Dopo piccole vittorie conseguite rifiutò in una lettera del 23 marzo 1845 la proposta fatta a gennaio dal generale Fructuoso Rivera, capo dei Colorados, che voleva regalare alcune terre alla Legione italiana.

Si cercò di far finire l’assedio: si opposero senza successo gli ammiragli Samuel Ingliefeld e Émile Lainé, mentre Brown si ritirò, e tempo dopo volle salutare il suo avversario. Nell’agosto 1845 Ingliefeld iniziò insieme a Garibaldi ad aprirsi un varco, con l’intenzione di conquistare porti nemici. Il nizzardo comandava due brigantini: Cagancha (64 uomini) e il 28 de marzo (36 uomini), e altre navi. Si aggiunsero i validi aiuti di Juan de la Cruz e José Mandell. Dopo aver preso l’isola del Biscaino e Gualeguaychú si aggiunse la goletta francese Eclair al cui comando vi era Hippolite Morier, si giunse davanti a Salto, occupata dagli uomini di Manuel Lavalleja. Egli, dopo essere stato sconfitto da Francesco Anzani, abbandonò la città che il 3 novembre fu occupata da Giuseppe Garibaldi. Giuseppe Garibaldi entrò in Massoneria nel 1844 nella Loggia “Asil de la Vertud” di Montevideo (o forse come alcuni vogliono del Rio Grande del Sud), una loggia “spuria”, emanazione della Massoneria brasiliana e non riconosciuta dalle grandi Comunioni mondiali. Nello stesso anno, il 18 agosto, fu regolarizzato nella Loggia “Amis de la Patrie” di Montevideo all’obbedienza del Grande Oriente di Francia, nel libro matricola della Loggia gli fu assegnato il numero 50.Garibaldi nella battaglia di San Antonio

Justo José de Urquiza iniziò l’assedio alla cittadina il 6 dicembre; dopo diciotto giorni di attacchi lasciò una parte dei suoi uomini, 700 di essi e abbandonò l’impresa. Il 9 gennaio 1846 Garibaldi ottiene la sua prima vittoria contro gli assedianti, attaccando di notte. Il generale Anacleto Medina intanto stava giungendo a dar man forte con i suoi 500 cavalieri; Garibaldi cercò di affrontarlo con 186 legionari e 100 uomini guidati dal colonnello Bernardino Baez ma vennero colti di sorpresa a loro volta dal generale Servando Gómez nei pressi di San Antonio. Gli uomini trovarono riparo nei resti di un saladero, dove si organizzarono, sparando solo a bruciapelo; e, attaccando in seguito con la baionetta, riuscirono a resistere all’attacco; dopo otto ore di combattimento, Garibaldi ordinò la ritirata. Si conteranno 30 morti a cui si aggiungeranno 13 dei feriti mentre Servando ne avrà contati più di 130.

I morti verranno raccolti e seppelliti in una fossa comune su cui verrà piantata una bandiera in loro onore: è l’8 febbraio 1846. Il nizzardo rimase a Salto per diversi mesi, respingendo ogni attacco. Il 20 maggio attaccò nella notte Gregorio Vergara e nel ritorno prima di guadare un ruscello decise di attaccare i soldati che li inseguivano comandati da Andrés Lamas. Le gesta oltre oceano di Giuseppe Garibaldi divennero celebri in Italia grazie al patriota Raffaele Lacerenza, che diffuse a proprie spese in tutto il paese seimila copie del Decreto di grazie ed onori concessi dal governo di Montevideo ai legionari italiani.

Giuseppe Garibaldi e Anita

Giuseppe e Anita si erano conosciuti a Laguna nel 1839: si narra che, dopo averla inquadrata con il cannocchiale mentre si trovava a bordo dell’Itaparica, una volta raggiunta le disse, in italiano: «Tu devi essere mia». Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva (questo il nome completo) si era sposata il 30 agosto 1835 con il calzolaio Manuel Duarte de Aguiar, molto più anziano di lei, che, arruolatosi fra gli imperiali, era fuggito da Laguna tempo prima, ma la moglie non lo seguì. Nata nel 1821 a Merinhos, aveva 18 anni al momento dell’incontro con Garibaldi.

Giuseppe Garibaldi e Ana Maria, passata alla storia e quasi alla leggenda del Risorgimento italiano con il diminutivo Anita, si sposarono il 26 marzo 1842 presso la chiesa di San Francisco d’Assisi con rito religioso. Secondo una leggenda, Anita, abile cavallerizza, insegnò a cavalcare al marinaio italiano, fino ad allora del tutto inesperto di equitazione. Giuseppe, a sua volta, la istruì, per volontà o per necessità, ai rudimenti della vita militare.

Cercò di far allontanare Anita e i figli da sua madre, ma nel giugno 1846 ottenne un parere contrario del ministro degli esteri di Carlo Alberto, Solaro della Margarita. I legionari progettano di tornare in patria, e grazie alla raccolta organizzata fra gli altri da Stefano Antonini, Anita, con i tre figli, e altri familiari dei legionari partirono nel gennaio del 1848 su una nave diretta a Nizza, dove furono affidati per qualche tempo alle cure della famiglia di Garibaldi. Scoppiati i moti italiani di indipendenza, fu autorizzato a ritornare negli stati sardi con un gruppo di soldati.

Prima guerra d’indipendenza

Garibaldi rientrò in Italia nel 1848, poco dopo lo scoppio della prima guerra di indipendenza. Venne noleggiato un brigantino sardo chiamato Bifronte, rinominato Speranza (o Esperanza); venne nominato come capitano lo stesso Garibaldi e la partenza avvenne il 15 aprile 1848, alle 2 del mattino; si erano imbarcati 63 uomini. Giunsero in vista di Nizza il 23 giugno. Lo avevano anticipato un suo luogotenente, Giacomo Medici, e una certa notorietà, grazie al lavoro di Mazzini. Tornato dunque in Europa per partecipare alla prima guerra di indipendenza contro gli austriaci, il 25 giugno proferisce parole a favore di Carlo Alberto di Savoia; il 29 giugno si trova a Genova e per giungere a Roverbella, nei pressi di Mantova, deve chiedere 500 lire a un amico. L’incontro con Carlo Alberto avvenne il 5 luglio: venne accolto freddamente, a causa dell’antica condanna; non potendogli offrire aiuto, gli consigliò di recarsi a Torino dal ministro della guerra, che gli suggerì a sua volta di recarsi a Venezia.

Nel 1848 incontrò Mazzini a Milano, rimanendone in parte deluso, avendo i due pensieri molto diversi. Partecipò comunque alla guerra come volontario al servizio del governo provvisorio di Milano, con la carica di generale. Formò il battaglione Anzani, al quale pose al comando Giacomo Medici, e partì alla volta di Brescia il 29 luglio, avendo ricevuto l’incarico di liberarla. Il numero dei suoi uomini era di circa 3 700 e usarono le vesti abbandonate dagli austriaci. Non giunse però nella città, poiché venne richiamato a Milano. Le sue affermazioni contro Carlo Alberto provocarono una sua dura reazione: il Re impartì l’ordine di fermarlo e, se si fosse ritenuto necessario, anche di arrestarlo, provocando la diserzione di alcuni volontari. Giunse ad Arona, dove chiese contributi alla cittadinanza, poi a Luino dove il 15 agosto 1848 ebbe il primo scontro in Italia contro gli austriaci (comandati dal colonnello Molynary) e verso Varese, poi navigando sul Lago Maggiore, essendosi impadronito dei battelli, penetrò per poco nel territorio austriaco.

Gli austriaci che si trovò a combattere erano comandati dal generale Konstantin d’Aspre, che ebbe l’ordine di ucciderlo, e dal maresciallo Radetzky. A Morazzone venne sorpreso da un attacco nemico, ma riuscì a fuggire nella notte, rimanendo con circa 30 uomini. Trovò riparo in Svizzera, il 27 agosto, valicando il confine travestito da contadino. Il 10 settembre ritornò da sua moglie, che viveva a casa di un amico, Giuseppe Deideri. Il 26 settembre ripartì alla volta di Genova e il 24 ottobre si imbarcò sulla nave francese Pharamond con Anita, poi rimandata a Nizza. All’inizio erano 72 gli uomini con Garibaldi, cui si aggiunsero i lancieri di Angelo Masina il 24 novembre e altri soldati provenienti da Mantova. Si arrivò così a una formazione di 400 uomini alla quale Garibaldi diede il nome di Legione Italiana.

Repubblica Romana

Infastidito dai reumatismi di cui soffriva, si ritirò a Rieti il 19 febbraio e, per breve tempo, ebbe la compagnia di Anita. Grazie al suo appello, giunsero molti giovani che portarono il totale a 1 264 uomini, oltre ad aiuti, vestiti e armi seppur in numero insufficiente; stazionarono poi ad Anagni, mentre Francesco Daverio chiedeva l’invio di altre armi. Il 23 aprile il nizzardo venne nominato generale di brigata dal ministro della guerra della Repubblica Romana Giuseppe Avezzana, mentre Carlo Alberto aveva abdicato in favore di Vittorio Emanuele II.

Giuseppe Garibaldi partecipò ai combattimenti in difesa della Repubblica Romana, minacciata dalle truppe francesi e napoletane che difendevano papa Pio IX. Luigi Napoleone fece sbarcare a Civitavecchia un corpo di spedizione francese, guidato dal generale Nicolas Oudinot. Il 25 aprile, dopo averla occupata, ne fece la sua base. Il 27 aprile giunse a Roma passando per Porta Maggiore. Contava di bloccare il nemico di 2 500 uomini e l’appoggio di altri 1 800 guidati dal colonnello Bartolomeo Galletti.Garibaldi, Andrea Aguyar (a cavallo) e Nino Bixio durante l’assedio di Roma. Disegno del 1854 di William Luson Thomas, basato sullo schizzo di George Housman Thomas realizzato nel 1849.

Scrutando il territorio decise di far occupare Villa Doria Pamphilj e Villa Corsini; il 30 aprile i francesi attaccarono, ma imprecisioni tattiche portarono lo scontro al colle Gianicolo: alla fine si ritirarono verso Castel di Guido; le perdite furono maggiori per i francesi (500 fra morti e feriti, contro i 200 dei difensori). Fra i feriti vi era Garibaldi, colpito al fianco da una fucilata francese che impattò il manico del pugnale, permettendogli di salvarsi.

Intanto Ferdinando II, re delle Due Sicilie, inviò i suoi uomini, guidati dal generale Ferdinando Lanza e dal colonnello Novi, che giunsero verso le 12 del 9 maggio a Palestrina; a respingerli furono il nizzardo e Luciano Manara; dopo un combattimento di tre ore, i borbonici si ritirarono, perdendo 50 dei loro uomini.

Il 19 maggio, nei pressi di Velletri, Giuseppe Garibaldi disobbedì agli ordini, in realtà ormai superati dagli eventi, di Pietro Roselli; nell’occasione Garibaldi venne travolto dai cavalieri, cadde a terra dove fu alla mercé di cavalli e nemici, ma venne salvato per intervento del patriota Achille Cantoni: seguirono aspre critiche al suo operato. Il 26 maggio 1849 Giuseppe Garibaldi giungeva a Ceprano, ordinando a Luciano Manara di entrare con i suoi bersaglieri nel Regno di Napoli, per combattere i borbonici che si erano attestati nella Rocca d’Arce. Mazzini voleva però concentrarsi sulla difesa dell’Urbe e, anche perché era giunta notizia dell’arrivo di forze spagnole a Gaeta e di un esercito austriaco, richiamò Garibaldi.

La notte fra il 2 e il 3 giugno 1849 Oudinot guidò i suoi verso Roma e conquistò, dopo continui capovolgimenti, i punti chiave di Villa Corsini e Villa Valentini; rimase in mano ai difensori Villa Giacometti. Morirono 1 000 persone, fra cui Francesco Daverio, Enrico Dandolo e Goffredo Mameli che, ferito, morirà in seguito per gangrena; verrà incolpato Garibaldi della sconfitta; i francesi potevano contare su circa 16 000 uomini Garibaldi su circa 6 000. Il 28 giugno 1849 i legionari di Garibaldi tornarono a indossare le loro tuniche rosse di lana.

Fuga da Roma e morte di Anita

L’assemblea che si era costituita diede i poteri a Garibaldi e Roselli: la sera del 2 luglio 1849, da piazza San Giovanni, con 4 700 uomini, partì deciso a continuare la guerra, non più di posizione ma di movimento. Pochi giorni prima si era aggiunta Anita che, incinta, decise di seguirlo per tutta la durata del viaggio.

Dopo aver rifiutato l’offerta fatta dall’ambasciatore degli Stati Uniti d’America, sulla strada di Tivoli affidò una parte dei soldati a Gaetano Sacchi e un reggimento della cavalleria al colonnello Ignazio Bueno compagno del Sudamerica, con lui il polacco Emilio Müller. Fece credere al nemico di dirigersi verso gli Abruzzi mentre andava a nord, divise in piccoli gruppi la cavalleria che mandava in esplorazione facendo pensare che potesse contare su un numero superiore di soldati. Intanto atti criminali commessi dal suo gruppo lo preoccupavano, e giunse a dover minacciare di morte chiunque commettesse furto e, il 5 luglio, a dover far giustiziare un ladro colto in flagrante.

A Terni l’8 luglio si aggiunsero altri 900 volontari guidati dal colonnello Hugh Forbes e rifornimenti. Fece circolare false voci sul suo itinerario, mentre in realtà intendeva raggiungere Venezia, dove la Repubblica di San Marco di Daniele Manin stava ancora resistendo all’assedio austriaco. I soldati davano però continuamente segni di cedimento, Müller li tradì e Bueno, il 28 fuggì con parte dei denari raccolti. Il nizzardo non riusciva a sostenere il gruppo.

Erano rimasti 1 500 uomini, che in pochi giorni si ridussero a qualche centinaio. Lungo la strada pernottarono due notti presso Todi: i soldati alloggiati presso il convento dei Cappuccini; Giuseppe Garibaldi e Anita, incinta, ospiti invece a Palazzaccio nella casa di Antonio Valentini, fervente garibaldino. Il 30 luglio si ritrova a passare la notte a Montecopiolo nella parte più alta del Montefeltro per proseguire la marcia attraverso sentieri impervi e macchie fitte di vegetazione in direzione della Repubblica di San Marino, dove arriva con circa 300 superstiti il 31 luglio per ricevere l’asilo concesso dalla Repubblica di San Marino. Contemporaneamente Garibaldi con un ordine del giorno sciolse la compagnia. I coniugi erano alloggiati presso Lorenzo Simoncini. Gli austriaci, guidati da d’Aspre, che comandava il corpo di occupazione austriaco in Toscana volevano che Garibaldi fosse imbarcato a forza per gli Stati Uniti, ma lui fugge da San Marino di notte con circa 250 uomini al seguito, mentre alcuni, tra cui Gustav Hoffstetter, abbandonano. Garibaldi ed Anita, colpita dalla malaria, vengono ospitati in una fattoria

Continuano gli aiuti trovati per strada: vengono guidati dall’operaio Nicola Zani con Anita sempre più febbricitante, fino a Cesenatico dove si imbarcano 13 bragozzi (barche da pesca), alla volta di Venezia, il 2 agosto. Arsi dalla sete a circa 80 km dall’obiettivo, all’altezza della punta di Goro, vengono avvistati e attaccati da un brigantino austriaco, l’Oreste, che con rinforzi li insegue catturando gli equipaggi di 8 bragozzi, più di 160 prigionieri che verranno condotti a Pola. Garibaldi, con Anita in braccio, guada per circa 400 metri giungendo infine sulla spiaggia, saluta i rimasti fra cui il barnabita Ugo Bassi e Giovanni Livraghi, che saranno fucilati a Bologna l’8 agosto, e Angelo Brunetti e i due figli, fucilati in seguito anch’essi. Garibaldi arriva a Magnavacca nelle Valli di Comacchio, con Anita agonizzante e Giovanni Battista Culiolo detto Leggero. Aiutati dall’umile Battista Barillari riescono a dissetare la moglie dell’eroe. Il 4 agosto ripartono e salgono sul biroccino guidato da Battista Manelli; arrivano alle Mandriole dove si fermano alla fattoria Ravaglia con Anita che muore, nonostante gli sforzi del medico Nannini, appositamente convocato.

Giuseppe Garibaldi, secondo quanto riporta l’uomo di chiesa Falconieri, avrebbe voluto dare degna sepoltura alla moglie e trasportarla alla vicina Ravenna, ma non vi era il tempo e fu scavata frettolosamente una buca nella sabbia della pineta. Dopo pochi giorni, il 10 agosto una ragazzina, Pasqua Dal Pozzo, scoprì il cadavere che fu tumulato nel cimitero di Mandriole. Le cause della morte di Anita furono a lungo discusse negli anni successivi, anche per attaccare Garibaldi. Undici anni dopo, il 20 settembre 1859, Garibaldi con i figli Teresita e Menotti tornerà a Ravenna per spostare i resti di Anita a Nizza, accanto a quelli di Rosa, madre dell’eroe.

Garibaldi e Leggero fuggono dapprima a Forlì; poi, il giorno 16, lasciano Forlì per raggiungere il vicino confine del Granducato di Toscana: Si tratta della cosiddetta trafila di Garibaldi. Sono aiutati, tra gli altri, da Ercole Saldini, dal sacerdote Giovanni Verità e dall’ingegnere Enrico Sequi, a cui Garibaldi lascerà la fede nuziale di Anita.

Attraversato il Granducato di Toscana, Garibaldi il 1º settembre salpa con l’imbarcazione di Paolo Azzarini, e il 5 settembre, nonostante il governo sabaudo avesse dato ordine di non lasciar entrare in territorio piemontese nessuno dei reduci della Repubblica Romana, si trova a Porto Venere, al sicuro. La Marmora commenterà affermando che era un miracolo il suo salvataggio.

Proprio lo stesso La Marmora, con i poteri di commissario straordinario di cui all’epoca era investito, la sera del 6 settembre fece arrestare Garibaldi a Chiavari e lo condusse nel Palazzo ducale di Genova. Circa la decisione da prendere seguì un dibattito alla Camera, il 10 settembre, nel quale intervennero fra gli altri Giovanni Lanza, Urbano Rattazzi e Agostino Depretis, e al cui termine la maggioranza dei parlamentari si dichiarò contraria all’arresto di Garibaldi e definì l’ipotesi di una sua espulsione come una lesione allo Statuto.

«La Camera dichiara che l’arresto del Generale Garibaldi e la minacciata sua espulsione dal Piemonte, sono lesioni dei diritti consacrati dallo Statuto e dei sentimenti di nazionalità e della gloria italiana»
(da Garibaldi e i Mille di George Macaulay Trevelyan)

Garibaldi venne quindi liberato e si parlò anche della possibilità dell’immunità parlamentare attraverso una sua candidatura a Recco per le elezioni suppletive della camera, ma egli rifiutò l’idea. Gli fu concessa una visita di un giorno ai familiari, durante la quale salutò la madre per l’ultima volta e affidò i figli maschi ad Augusto, mentre la figlia continuò a rimanere con i Deideri. Dopo vari spostamenti (prima a Tunisi, dove gli fu rifiutata ospitalità, quindi a La Maddalena) partì sul brigantino da guerra Colombo per Gibilterra, giungendovi il 9 novembre, e il 14 novembre ripartì su una nave spagnola, La Nerea. Accompagnato dagli ufficiali “Leggero” e Luigi Cocelli si diresse a Tangeri, dove accettò l’ospitalità dell’ambasciatore piemontese in Marocco Giovan Battista Carpenetti. Nel mese di giugno partì nuovamente, questa volta in compagnia del maggiore Paolo Bovi Campeggi. Il 22 fu a Liverpool, e il 27 giugno 1850 partì per New York con il Waterloo, giungendovi in 33 giorni di viaggio. Il 30 luglio, per i dolori causati dai reumatismi, ebbe bisogno di aiuto per scendere a terra, a Staten Island.

Abitò in compagnia di Felice Foresti con Michele Pastacaldi. Conobbe Teodoro Dwight che ricevette le sue Memorie, con l’accordo di non pubblicarle; Garibaldi gli diede il consenso di farlo solo anni dopo, nel 1859 Abitò con Antonio Meucci, che lo fece lavorare nella propria fabbrica di candele. Dopo nove mesi lasciò New York e si imbarcò sulla Georgia per i Caraibi. Continuò a navigare, assumendo il nome di Anzani e l’antico Giuseppe Pane. Arrivò il 5 ottobre a Callao nel Perù, poi a Lima dove dopo tanto tempo fu nuovamente capitano di una nave, un brigantino di nome Carmen. Il 10 gennaio 1852 parte alla volta della Cina, e navigò ancora dalle Filippine, costeggiò l’Australia, giunse infine a Boston il 6 settembre 1853. Commerciò diversi generi, soprattutto seta e guano.

Rientro in Italia e seconda guerra d’indipendenza

Ritornato in Europa, l’11 febbraio 1854 a Londra incontrò nuovamente Mazzini, poi viaggiando giunse prima a Genova il 6 maggio, e poi a Nizza. Comprò il 29 dicembre 1855 una parte dei terreni di Caprera, isola dell’arcipelago sardo di La Maddalena. Partendo dalla casa di un pastore, costruì, insieme a 30 amici, una fattoria; in seguito l’isola divenne interamente di sua proprietà. Dopo la Terza Guerra di Indipendenza, venne chiamato a Caprera, per amministrare i beni del Generale, il colonnello e amico Giovanni Froscianti (Collescipoli, 1811 – Collescipoli, 1885) che fu al fianco di Garibaldi durante la Spedizione dei Mille.

Nell’agosto del 1855 gli venne concessa la patente di capitano di prima classe: navigò con il “Salvatore”, un piroscafo a elica; in seguito prese un cutter inglese chiamato Anglo French, a cui diede il nome del suo nuovo amore, Emma. Dopo che la nave si arenò, Giuseppe Garibaldi abbandonò l’attività di marinaio per dedicarsi all’agricoltura, lavorando come contadino e allevatore: possedeva un uliveto con circa 100 alberi d’ulivo, oltre a un vigneto, con cui produceva vino, e allevava 150 bovini, 400 polli, 200 capre, 50 maiali e più di 60 asini.

Il 4 agosto rese pubblico il suo pensiero distanziandosi dalle prese di posizioni mazziniane. Il 20 dicembre 1858 incontrò Cavour. Divenne vicepresidente della Società Nazionale mentre si pensava di metterlo a capo di truppe: il 17 marzo 1859 vennero istituiti, grazie a un decreto reale, i Cacciatori delle Alpi, e Garibaldi ebbe il grado di maggiore generale. Si contavano circa 3200 uomini, i quali vestivano l’uniforme dell’esercito sardo. Si formarono 3 gruppi: oltre al nizzardo, al comando vi erano Enrico Cosenz e Giacomo Medici.

Marciò verso Arona: i suoi uomini erano convinti di pernottarvi, Garibaldi comunicò a Torino l’intenzione di giungervi, al che ordinando l’assoluto silenzio, raggiunse Castelletto, fermò due reggimenti e con il terzo avanzò; il 23 maggio, superato il Ticino, con le barche attaccò Sesto Calende riuscendo ad avere la meglio sugli austriaci ed entrando in Lombardia.

Occupata Varese, venne affrontato il 26 maggio dal barone Karl Urban, noto anche come il Garibaldi austriaco inviato da Ferenc Gyulay; nell’occasione il comandante ordinò di sparare soltanto quando il nemico si trovasse alla distanza di 50 passi, lo scontro è noto come battaglia di Varese. Si conteranno fra i cacciatori la perdita di 22 uomini contro 105 austriaci, a cui si aggiungeranno 30 prigionieri. Il giorno seguente, dopo aver attaccato frontalmente e vinto gli austriaci nella battaglia di San Fermo, nonostante fosse in netta inferiorità numerica, occupò la città di Como. Il 29 ripartì con i suoi uomini dalla città, volendo conquistare il fortino a Laveno, raggiunto il 31 maggio. Questo attacco non ebbe esito favorevole, e nel frattempo, essendo Urban rientrato a Varese, ritornò a Como per presidiare la città, riprendendo poi Varese in seguito alla vittoria dei francesi a Magenta.

Il 15 giugno, seguendo l’ordine di Della Rocca che l’invia a Lonato sul lago di Garda, si mosse verso est. A Rezzato, nel bresciano, avrebbe dovuto congiungersi con le truppe di Sambuy, che però non giunsero in quanto l’operazione era stata annullata, ma di ciò non era stato avvertito e continuò ad avvicinarsi al nemico in ritirata. Enrico Cosenz, dopo aver fermato un attacco nemico, si fermò, mentre il colonnello Stefano Turr continuò l’attacco, raggiunto poi dallo stesso Cosenz; Garibaldi, notando la situazione sfavorevole, inviò Medici a loro sostegno e organizzò le truppe, limitando il danno: 154 fra i cacciatori, contro i 105 degli austriaci. in quella che venne chiamata battaglia di Treponti. Ricevette quindi l’ordine di spostarsi in un teatro secondario bellico: in Valtellina, per respingere alcune truppe austriache verso il passo dello Stelvio; l’armistizio di Villafranca terminò gli scontri. Durante tutta questa campagna il numero di volontari al suo seguito crebbe da circa 3 000 a un numero non ben quantificato: 12 000 secondo Trevelyan, 9 500 secondo la Riall che si basa su uno scritto di Garibaldi stesso.

Manfredo Fanti ebbe il comando mentre Giuseppe Garibaldi venne retrocesso come comandante in seconda, ricevendo il comando di una delle tre truppe, le altre due saranno agli ordini di Pietro Roselli e Luigi Mezzacapo, dopo litigi diede le dimissioni.

Da Quarto al Volturno

«Qui si fa l’Italia o si muore.»

Rinunciò alla Società Nazionale (aveva ottenuto il comando a ottobre), diventando poi presidente della Nazionale Armata, una nuova associazione che presto fallì. Intanto Nizza era passata ai francesi, e Garibaldi, eletto deputato, tenne un discorso a tal proposito il 12 aprile 1860, senza esiti. Si dimise il 23, dopo il risultato della votazione.

Il 27 aprile 1860 dall’isola di Malta Nicola Fabrizi inviò un telegramma cifrato: l’unico ad avere il codice per decifrare lo scritto era Francesco Crispi, che tradusse inizialmente in maniera negativa il messaggio, deludendo Garibaldi che stava preparando il suo ritorno a Caprera. A nulla valsero i consigli di La Masa, Bixio e Crispi che premevano affinché il nizzardo partisse lo stesso. Crispi ritornò due giorni dopo, affermando di aver ricevuto in realtà buone notizie, e la spedizione ebbe inizio.

Nel settembre 1859 fu promotore di una raccolta volta all’acquisto di un milione di fucili, dando il compito a Enrico Besana e Giuseppe Finzi. Riuscirono a comprare dei fucili Enfield e Colt inviò dei suoi revolver. Per la spedizione non vennero utilizzate le armi raccolte, ma quelle messe a disposizione da Giuseppe La Farina che provenivano da quelle utilizzate nella campagna passata, simili a quelle raccolte.

La sera del 5 maggio venne simulato il furto delle due navi Piemonte e Lombardo: si raccolsero una quarantina di persone al cui comando era Bixio, che prese possesso delle imbarcazioni Giuseppe  Garibaldi salì sul Piemonte capitanato da Salvatore Castiglia, con lui circa 300 persone. Bertani gli consegnò la somma raccolta, circa 90 000 lire. Sull’altra nave rimase Bixio con 800 uomini circa.

Garibaldi indossò per la prima volta la camicia rossa e non la solita veste di Montevideo; lo faranno in 150, tante erano le divise messe a disposizione. Si contavano 250 avvocati, 100 medici, 50 ingegneri e fra i 1 000 vi era una donna, Rosalia Montmasson, moglie di Crispi. Partirono da Quarto, presso Genova. Cavour il 7 maggio ordinò con un dispaccio di fermare le due navi solo se avessero ormeggiato in un porto della Sardegna, gli ordini giunsero all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano il 9 maggio e chiedendone chiarimenti e riassicurazioni le ottenne il giorno 10.

Il 7 maggio si trovano a Talamone. Inviò Stefano Turr a Orbetello per rifornirsi di armi, mentre alcuni decisero di abbandonare la spedizione mentre venne affidata una missione a Callimaco Zambianchi con 64 uomini. I soldati vennero divisi in 8 compagnie che confluirono in due battaglioni ai comandi di Giacinto Carini e Bixio. Ripartiti, durante il viaggio evitarono per poco una collisione fra le due navi. Garibaldi voleva raggiungere Trapani, Sciacca o Porto Palo, solo verso la fine del viaggio cambiò obiettivo dirigendosi su Marsala, ottenendo informazioni da un peschereccio.

Sei navi da guerra borboniche si trovavano nelle acque vicine alle Isole Egadi e presidiavano le coste di Marsala – sede del Quartiere Militare Borbonico – che proprio in quegli anni intraprendeva scambi commerciali con l’Inghilterra. Garibaldi, esponendo bandiera inglese, si avvicinò alla costa marsalese facendo finta di essere un’imbarcazione di mercanti. Avvenuto lo sbarco a Marsala, giunse la pirocorvetta Stromboli comandata da Guglielmo Acton e dotata di pochi cannoni; inizialmente non attaccò, in quanto vi erano nelle vicinanze degli stabilimenti inglesi e due loro navi, la Intrepid e la Argus al cui comando vi era Winnington-Ingram, già conosciuto da Garibaldi ai tempi di Montevideo. Alla prima imbarcazione se ne aggiunse un’altra, la Partenope con 60 cannoni. Il bombardamento iniziò in ritardo permettendo lo sbarco dei rivoltosi.

L’arrivo in Sicilia delle truppe di Giuseppe Garibaldi era stato previsto dallo stesso Francesco II di Borbone che aveva avvertito il principe di Castelcicala, il rappresentante del re in Sicilia, intorno a Marsala. Giunti nell’isola, Garibaldi si proclamò dittatore della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, da lui appellato re d’Italia. Dopo lo sbarco sull’isola, il 12 maggio 1860 lasciarono la città. A Salemi issò personalmente sulla cima di una delle tre torri del castello arabo-normanno la bandiera tricolore proclamando Salemi la prima capitale d’Italia, titolo che mantenne per un giorno. In quella città proclamò la dittatura “in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia”.

Si uniranno a lui il barone Stefano Triolo di Sant’Anna con circa sessanta persone e i picciotti, circa 500, (che vennero poi chiamati da Garibaldi i Cacciatori dell’Etna). Il generale Francesco Landi, avvertito, con l’aiuto del maggiore Michele Sforza e del VIII battaglione Cacciatori, inviò delle forze in ricognizione e ingaggiò battaglia con gli invasori.

La battaglia di Calatafimi vide la ritirata delle truppe borboniche, anche se lo scontro terminò con pari perdite, fra le quali quella del camoglino Simone Schiaffino che i borbonici confusero con lo stesso Garibaldi. Durante lo scontro sono diverse le frasi che si attribuiscono pronunciate dall’eroe: «I Mille non hanno bandiera» (quando venne perso il tricolore) e «Qui si fa l’Italia o si muore», la celebre risposta data a Bixio che chiedeva di ritirarsi; alcuni sostengono che abbia proferito invece «Ritirarci, ma dove?» A Calatafimi, Garibaldi rischiò di essere ucciso da un cacciatore borbonico che era sopraggiunto alle sue spalle, ma Augusto Elia gli salvò la vita, frapponendo il suo corpo alla pallottola destinata al generale.

Garibaldi quindi finse di recarsi a Corleone dove inviò il colonnello Vincenzo Giordano Orsini con i vari carri mentre si diresse verso Palermo, ingannando in tal modo il colonnello svizzero Giovan Luca Von Mechel che aveva attaccato le truppe di Rosolino Pilo, che pur vittorioso perì nello scontro. Intanto era giunto il generale Alessandro Nunziante in aiuto del nuovo commissario straordinario Lanza.

Il 26 Giuseppe Garibaldi con i suoi uomini, ora circa 750, giunse vicino a Palermo e ricevette i rinforzi di Giuseppe La Masa; la sera stessa attaccò la città entrando da Porta Termini, raggiungendo alle sei del mattino del 27 maggio piazza della Fieravecchia. Si combatté per diversi giorni, e in aiuto avvenne l’insurrezione popolare; poi, iniziati gli incontri fra Garibaldi e il generale Giuseppe Letizia, che rappresentava Landi, dopo vari armistizi il 6 giugno 1860 Landi si arrese lasciando la città ai rivoltosi. Nei giorni trascorsi vari episodi di violenza nella città da parte dei fedeli al nizzardo portarono Garibaldi a decretare la pena di morte per determinati reati.

Il 4 giugno chiamò esercito meridionale i suoi uomini, mentre il 13 sciolse i gruppi dei picciotti. Era rimasto senza adeguate risorse, ma giunsero vari rinforzi a partire da Carmelo Agnetta giunto il 1º giugno con i suoi 89 uomini, Salvatore Castiglia, Enrico Cosenz e Clemente Corte. Le donne palermitane tesserono la nuova bandiera dell’esercito: un drappo nero ornato di rosso con l’effigie di un vulcano al centro.

Giunse il generale Tommaso Clary e inviò il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco, vice in passato di Von Mechel, a Milazzo: il 20 luglio ci fu lo scontro. Inizialmente Garibaldi dava ordini dal tetto di una casa, poi scese nella mischia e infine salì sull’unica loro nave a disposizione, la Tükory e cannoneggiando la città ottenne il ritiro delle truppe nemiche. La vittoria costò ai soldati di Garibaldi 800 fra morti e feriti.

Il 27 luglio Garibaldi giunse a Messina. Lo stesso giorno ricevette una lettera dal conte Giulio Litta-Modignani il mittente era Vittorio Emanuele, nella missiva si leggeva una richiesta a desistere nell’impresa di sbarcare sul territorio napoletano, a questa prima seguì una seconda, letta a voce o consegnata un suggerimento di non seguire l’ordine impartitogli. in ogni caso Garibaldi rispose, sempre il 27 luglio, negativamente alla richiesta espressa.

Il 1º agosto anche Siracusa e Augusta vennero liberate. Tempo prima aveva formato un governo con 6 dicasteri che divennero 8. Il 7 giugno, abolì la tassa sul macinato, pretese che parte del demanio dei comuni venisse diviso fra i combattenti, fondò un istituto militare dove venivano raccolti i ragazzi abbandonati e diede un sussidio alle famiglie in povertà della città di Palermo, cercando nel frattempo l’appoggio dei ceti dominanti. Chiese l’invio di Agostino Depretis a cui venne affidato l’amministrazione civile, mentre Cavour si preoccupava per le intenzioni del nizzardo.

I contadini di Bronte insorsero contro i possidenti, uccidendone una quindicina nell’attacco; il console inglese a Catania si interessò della questione, per cui venne inviato il colonnello Giuseppe Poulet che risolse il tutto pacificamente. Il console non gradì il gesto, e venne inviato Bixio in quella che definirà in una lettera alla moglie come «missione maledetta» portando l’arresto di 300 persone, una multa imposta alle famiglie, anche le più abbienti, e la fucilazione di 5 persone, il 10 agosto.

Giuseppe Garibaldi tentò i primi attacchi alla penisola senza successo: l’8 agosto Benedetto Musolino attraversò lo Stretto a capo di una spedizione di 250 uomini, ma l’assalto al forte di Altafiumara venne respinto e i garibaldini costretti a rifugiarsi sull’Aspromonte, mentre la Tükory fallì l’arrembaggio al Monarca che si trovava ancorato al porto di Castellammare di Stabia il 13 agosto 1860. A bordo dei due piroscafi, giunti dalla Sardegna, il Torino e il Franklin Garibaldi e i suoi uomini sbarcarono a Mèlito Porto Salvo (vedi: Sbarco a Melito), vicino a Reggio (Calabria), il 19 agosto 1860.

Aggirarono e sconfissero i borbonici, comandati dal generale Carlo Gallotti, nella battaglia di Piazza Duomo a Reggio Calabria il 21 agosto. I due generali borbonici Fileno Briganti e Nicola Melendez forti di quasi 4 000 uomini, senza l’appoggio di Giuseppe de Ballesteros Ruiz, si arresero a Garibaldi il 23 agosto 1860. Briganti venne ucciso dai suoi stessi soldati. Il 30 agosto ebbero la meglio sul generale Giuseppe Ghio. Il 2 settembre l’Esercito meridionale arrivò in Basilicata a Rotonda (la prima provincia continentale del regno a insorgere contro i Borboni), e cominciò una rapida marcia verso nord, che si concluse, il 7 settembre, con l’ingresso in Napoli.

La capitale era stata abbandonata dal re Francesco II il 5 settembre, mentre quasi tutta la sua flotta si era arresa. Giuseppe Garibaldi aveva scelto Caserta per dispiegare le sue forze; nel frattempo, in una sua breve assenza, il 19 settembre 1860 Turr inviò trecento uomini a Caiazzo; il dittatore, tornando, decise di rinforzare il presidio con altri 600 uomini, contro i 7 000 soldati borbonici che attaccarono il 21 settembre; non saranno sufficienti: le perdite ammonteranno fra morti, feriti e prigionieri a circa 250. Il generale Giosuè Ritucci prese il comando delle truppe borboniche. Utilizzerà circa 28 000 soldati nell’attacco sferrato il 1º ottobre. Il nizzardo nella battaglia utilizzò strategicamente la ferrovia: viaggiava in carrozza e quando il veicolo venne attaccato lui continuò a piedi per dare ordini alle truppe. Luca Von Mechel, ora generale, che doveva appoggiare con le sue truppe quelle di Ritucci, venne fermato da Bixio, e si ritirarono, mentre le truppe di Giuseppe Ruiz fermarono la loro avanzata. Garibaldi decise di richiamare circa 3 000 soldati stanziati a Caserta e divise gli uomini inviandone una metà a Sant’Angelo attaccando i borbonici alle spalle comandati da Carlo Afan de Rivera, respingendo l’assalto. La battaglia del Volturno vide perdite maggiori fra le file dei garibaldini: quasi 1 900 contro i 1 300, ma il giorno dopo vennero catturati poco più di 2 000 soldati borbonici, disorientati, non avendo ricevuto nuove istruzioni.

Dopo le votazioni per il plebiscito che si tennero il 21 ottobre, Garibaldi approfittò della vittoria di Enrico Cialdini sul generale borbonico Scotti Douglas per superare il Volturno il 25 ottobre; incontrò Vittorio Emanuele II il 26 ottobre 1860, lungo la strada che portava a Teano, e gli consegnò la sovranità sul Regno delle Due Sicilie. Garibaldi accompagnò poi il re a Napoli il 7 novembre e, il 9 novembre si ritirò nell’isola di Caprera, partendo con il piroscafo americano Washington, dopo aver ringraziato l’ammiraglio George Mundy.

Desideroso di presentare il progetto di istituzione di una guardia nazionale mobile, dove sarebbero confluiti i volontari dai 18 ai 35 anni, si recò nella capitale. Il 18 aprile 1861 giunto alla camera, nel suo discorso, affermò che il brigantaggio nel mezzogiorno era dovuto in parte allo scioglimento dell’esercito meridionale, avvenuto poco tempo prima, e ne chiedeva la ricostituzione. Inoltre Giuseppe Garibaldi ravvisava nel brigantaggio «una questione sociale, la quale non si poteva risolvere con il ferro e con il fuoco», individuandone i responsabili nel governo e nella borghesia. Secondo una testimonianza di Crispi, Garibaldi, amareggiato da questa guerra fratricida, quando gli riferirono che i briganti non accennavano ad arrendersi nonostante le misure drastiche del governo, avrebbe esclamato: «quanto eroismo miseramente sciupato! cotesti uomini, traviati dal delitto, sarebbero stati soldati valorosi all’appello della patria!»; ritornò quindi a Caprera.

Guerra di secessione americana

Nella primavera del 1861, mentre le truppe unioniste collezionavano una serie di pesanti insuccessi nei confronti delle truppe confederate, il colonnello Candido Augusto Vecchi scrisse al giornalista statunitense Henry Theodore Tuckerman ipotizzando una partecipazione del generale alla guerra civile americana. Il 2 maggio era apparsa sul New York Daily Tribune una lettera scritta in argomento dal Nizzardo. Il console statunitense ad Anversa, James W. Quiggle, l’8 giugno scrisse a Garibaldi, offrendogli un posto di comando nell’esercito nordista. L’ambasciatore statunitense Henry Shelton Sanford volle accertarsi delle vere intenzioni del generale, che intanto aveva scritto su tale questione a Vittorio Emanuele.

Le richieste avanzate dal Nizzardo riguardavano un impegno deciso per l’emancipazione degli schiavi e l’essere nominato comandante in capo di tutto l’esercito: con queste premesse, la trattativa si arenò. Nell’autunno del 1862 Canisius, console americano a Vienna, riprese i contatti; tuttavia Garibaldi, ferito e reduce dall’Aspromonte, si trovava detenuto a Varignano e in caso di accettazione si sarebbe prospettato un delicato caso diplomatico. Seguirono passi da parte di William H. Seward, segretario di stato di Abraham Lincoln, per far decadere senza esito la proposta.

Mancata liberazione di Roma

Per l’intera esistenza Giuseppe Garibaldi colse ogni occasione per liberare Roma dal potere temporale; grazie al successo passato, nel 1862, organizzò una nuova spedizione, senza considerare che Napoleone III, l’unico alleato del neonato Regno d’Italia, proteggeva Roma stessa. Il 27 giugno 1862 Garibaldi si era imbarcato sul Tortoli a Caprera per la Sicilia. Durante un incontro commemorativo della spedizione dei mille, si convinse a marciare verso Roma e trovò 3 000 uomini nei pressi di Palermo pronti a seguirlo. Il 19 agosto incontrò la popolazione di Catania a Misterbianco.

Prese due navi, la Dispaccio e la Generale Abbatucci, partendo di sera, costeggiando gli scogli, eluse le navi di Giovanni Battista Albini. Il 25 agosto 1862, alle 4 del mattino, sbarcava in Calabria, fra Melito di Porto Salvo e capo dell’Armi. Con duemila uomini, continuò la marcia, non seguendo la costa per via del fuoco di una nave; si inoltrarono quindi per il massiccio dell’Aspromonte. La sera del 28 agosto si contarono 1 500 uomini; il giorno successivo si scontrarono con le truppe di Emilio Pallavicini a cui il governo di Torino aveva affidato circa 3 500 uomini.

I bersaglieri aprirono il fuoco, ma Garibaldi ordinò di non rispondere: tuttavia alcuni dei suoi uomini gli disubbidirono, al che il nizzardo, per far cessare il fuoco, si alzò e venne ferito due volte: nella coscia sinistra e al collo del piede destro, nel malleolo. L’episodio della sua ferita sarà ricordato in una celebre ballata popolare su un ritmo di una marcia dei bersaglieri.

Dopo circa quindici minuti, quando Garibaldi cadde, il combattimento cessò: si contarono 7 morti e 14-24 feriti nell’esercito regio e 5 morti e 20 feriti fra i seguaci di Garibaldi. Garibaldi ferito nell’Aspromonte.

La cosiddetta giornata dell’Aspromonte fruttò al generale l’arresto. Venne imbarcato sulla pirofregata Duca di Genova, raggiungendo prima Scilla e poi il 2 settembre giunse a La Spezia venendo rinchiuso nel carcere militare del Varignano. Fu curato dai medici Di Negro, Palasciano e Bertani, ma, in considerazione della sua notorietà, accorsero al suo capezzale Richard Partridge da Londra, Nikolaj Ivanovič Pirogov dalla Russia e Auguste Nélaton dalla Francia.

Vittorio Emanuele, per festeggiare il matrimonio nel 1862 della figlia Maria Pia con Luigi I re del Portogallo, amnistiò i rivoltosi il 5 ottobre dello stesso anno. Garibaldi il 22 fu trasportato alla Spezia all’Albergo “Città di Milano” e venne visitato da Auguste Nélaton, che gli applicò uno specillo di propria invenzione in porcellana, che aveva la proprietà di individuare il piombo. La cosa rese possibile al chirurgo fiorentino Ferdinando Zannetti di operarlo il 23 novembre per estrarre la palla di fucile. L’operazione avvenne a Pisa nell’Albergo delle Tre Donzelle, nell’appartamento al primo piano, in cui alloggiava con i familiari e il suo seguito. Il 20 dicembre dello stesso anno, partì di notte, via Canale dei Navicelli, per non suscitare troppo clamore, data la presenza di tanti suoi sostenitori. Venne trasportato sulla nave Sardegna per Caprera. In seguito partì per l’Inghilterra.

Che il tentativo del 1862 fosse velleitario, lo provarono i successivi eventi del 1867. Nel 1864 Garibaldi diventa Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, principale ordine massonico italiano. Garibaldi conobbe nel 1866 Petko Kiryakov Kaloyanov, più noto come Capitano Petko Voyvoda, durante una sua visita in Italia. Diventarono ben presto amici e Petko fu ospite di Garibaldi per alcuni mesi. Garibaldi lo aiutò a organizzare il “Battaglione Garibaldi” nella rivolta di Creta del 1866-1869, costituito da 220 italiani e 67 bulgari, che eroicamente combatterono al comando di Petko Voyvoda nella coraggiosa difesa della causa ellenica.

Terza guerra d’indipendenza

Il 6 maggio 1866 si formarono dei Corpi Volontari: Garibaldi doveva assumerne il comando, ma invece di 15 000 persone previste si presentarono in 30 000 persone. Sul Piemonte il 10 giugno Garibaldi partì raggiungendo i suoi uomini. Alla fine si contarono 38 000 uomini e 200 cavalieri, ma di questi utilizzerà inizialmente solo 10 000. Contro di lui il generale Kuhn von Kuhnenfeld con 17 000 uomini. Doveva agire in una zona di operazioni secondaria, le prealpi tra Brescia e il Trentino, a ovest del Lago di Garda, con l’obiettivo strategico di tagliare la via fra il Tirolo e la fortezza austriaca di Verona.

Ciò avrebbe lasciato agli Austriaci la sola via di Tarvisio per approvvigionare le proprie forze e fortezze fra Mantova e Udine. L’azione strategica principale era, invece, affidata ai due grandi eserciti di pianura, di La Marmora e Cialdini. Garibaldi operò inizialmente a copertura di Brescia, dopo piccole vittorie del 24 giugno e quella del Ponte Caffaro il 25 giugno 1866. Il 3 luglio non riuscì a penetrare a Monte Suello dove venne ferito, lasciando il comando a Clemente Corte.

Il 16 luglio respinse una manovra del generale nemico a Condino; il 21 luglio gli austriaci presero Bezzecca; Garibaldi, avendo notato che i suoi uomini stavano ritirandosi, diede nuove disposizioni riuscendo a respingere l’avanzata e a far ritirare il nemico. Si apriva la strada verso Riva del Garda e quindi l’imminente occupazione della città di Trento. Salvo essere fermato dalla firma dell’armistizio di Cormons. Il 3 agosto ricevette con telegramma di abbandonare il territorio occupato rispose telegraficamente: «Ho ricevuto il dispaccio nº 1073. Obbedisco» “Obbedisco”, parola che successivamente divenne motto del Risorgimento italiano e simbolo della disciplina e dedizione di Garibaldi.

Il telegramma fu inviato dal garibaldino marignanese Respicio Olmeda in Bilancioni il 9 agosto 1866 da Bezzecca, evento ricordato su una lapide collocata sulla facciata della sua casa natale in via Roma n. 79 a San Giovanni in Marignano (RN). Il corpo dei volontari venne sciolto il 1º settembre; in seguito ci fu l’episodio di Verona

Seconda campagna per Roma

Nel 1867, approfittando della popolarità derivatagli dalla vittoria di Bezzecca, Giuseppe Garibaldi stava ritentando l’impresa di invadere Roma. Promosse una raccolta che chiamò «Obolo della Libertà» contrapponendolo all’«Obolo di San Pietro», e si interessò al centro insurrezionale romano, formando un Centro dell’emigrazione con sede a Firenze.Partecipò al Congresso internazionale della pace, il 9 settembre 1867 a Ginevra, dove venne eletto presidente onorario.

Preparò un attacco contando sulla rivolta interna della città; dopo una serie di rimandi, senza l’appoggio dello stato, il 23 settembre partì da Firenze, ma il giorno dopo il 24 settembre 1867 venne arrestato. Il presidente del consiglio Urbano Rattazzi agì in tempo facendo arrestare Garibaldi a Sinalunga, e portato nella Cittadella di Alessandria. 25 deputati protestarono per l’accaduto: essendo il nizzardo stato eletto nel Mezzogiorno, veniva a infrangersi l’immunità parlamentare e i soldati che dovevano sorvegliarlo ascoltavano i suoi proclami dalla finestra della prigione. Venne poi portato il 27 settembre prima a Genova e poi a Caprera, isola in quarantena per colera, dove era prigioniero, sorvegliato a vista e l’isola controllata dalla Regia Marina.

Organizzò una rocambolesca fuga utilizzando Luigi Gusmaroli come suo sosia. Mentre l’uomo sostituì Garibaldi, il nizzardo lasciò l’isola il 14 ottobre stendendosi su un vecchio beccaccino comprato anni prima e nascosto. Giunse all’isolotto di Giardinelli, e, dopo aver guadato, arrivò a La Maddalena alloggiando dalla signora Collins. Con Pietro Susini e Giuseppe Cuneo giunsero in Sardegna, dopo essersi riposati ripartirono il 16 ottobre e dopo aver viaggiato a cavallo per 15 ore, il 17 si imbarca raggiungendo in seguito Firenze il 20. Partito da Terni raggiungendo Passo Corese il 23, contava fra i suoi uomini circa 8 000 volontari, in quella che venne riconosciuta come “Campagna dell’Agro Romano per la liberazione di Roma”. Dopo un primo attacco a Monterotondo il 25 ottobre prese il 26 ottobre 1867 la piazzaforte pontificia bruciando la porta utilizzando un carro infuocato penetrandovi con i suoi uomini.

Giunse il 29 a Castel Giubileo e dopo a Casal de’ Pazzi, il 30 sino all’alba del 31 rimase in vista di Roma ma non ci fu la rivolta che attendeva e ritirò le sue truppe. Garibaldi non sapeva del proclama del re che aveva sedato gli animi rivoltosi, malgrado il sacrificio dei fratelli Cairoli (Scontro di Villa Glori) e il sacrificio a Roma della Tavani Arquati di Monti e Tognetti decapitati nel 1868.

Decise di recarsi a Tivoli: la partenza era prevista il 3 novembre alle 3 di notte ma venne posticipata alle 11, erano circa in 4700 giunti a Mentana incontrano i 3 500 pontifici guidati da Hermann Kanzler, ma riuscirono a farli retrocedere; sopraggiunsero quindi i 3 000 francesi guidati da Charles De Failly, dotati del fucile Chassepot a retrocarica in quella che verrà chiamata la battaglia di Mentana. Di fronte al fuoco Garibaldi continuò l’attacco ma a una successiva carica annunciata venne fermato da Canzio, e decise quindi il ritiro delle truppe.

Partì con un treno da Orte alla volta di Livorno, ma presso la stazione di Figline Valdarno venne nuovamente arrestato e rinchiuso a Varignano il 5 novembre, vi restò sino al 25 novembre, dopodiché tornò a Caprera. Come deputato si dimise nell’agosto del 1868.

Giuseppe Garibaldi e le Campagne in Francia

Durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871, Garibaldi offrì i suoi servigi alla neonata Terza Repubblica francese. Joseph-Philippe Bordone, con il battello Ville de Paris, raggiunse la Corsica e, per ingannare la sorveglianza della marina italiana, continuò il viaggio su una piccola barca. Indi prese a bordo Giuseppe Garibaldi, che sbarcò a Marsiglia il 7 ottobre 1870, recandosi poi nella capitale provvisoria francese, Tours. I primi ordini di Léon Gambetta furono quelli di occuparsi di qualche centinaio di volontari; il nizzardo rifiutò di eseguire l’ordine, ottenendo il comando delle truppe della cosiddetta «Armata dei Vosgi», gli uomini furono inizialmente 4 500. Stabilì dunque il quartier generale a Dôle e poi l’11 novembre a Autun.

Nello stesso mese predispose una spedizione vittoriosa, compiuta da Ricciotti. Digione intanto era caduta in mani tedesche, comandate da Augusto Werder, e poi era stata abbandonata per l’avanzata delle truppe francesi. Sentenziò la pena di morte al colonnello Chenet perché abbandonò la sua postazione durante il combattimento, ma graziato dagli stessi francesi, la condanna non venne eseguita

Giuseppe Garibaldi occupò la città e la difese dall’attacco del 21 gennaio. Dopo tre giorni di combattimenti i tedeschi si ritirarono e in quei giorni fu presa l’unica bandiera dei tedeschi persa nella guerra. Fra i 4 000-6 000 uomini prussiani le perdite furono circa 700.

Il 29 gennaio venne stipulato un armistizio di alcune settimane, che non tenne conto della zona del sud-est e quindi dei soldati dell’Armata del Vosgi. Il 31 gennaio le truppe di Garibaldi vennero attaccate, il generale sottraendosi allo scontro diresse i suoi uomini in una zona compresa nell’armistizio. Quando terminò la guerra la sua armata fu l’unica che rimase sostanzialmente intatta, con minime perdite.

Nel febbraio 1871, dopo la proclamazione della Terza Repubblica francese, nelle elezioni politiche tenutesi l’8 febbraio, Garibaldi venne eletto deputato all’Assemblea Nazionale Francese, provvisoriamente insediatasi a Bordeaux, come secondo deputato di Algeri dopo Gambetta. La sua speranza era di far abrogare il Trattato di Torino del 1860 con cui la Contea di Nizza era stata ceduta a Napoleone III. La richiesta di restituzione all’Italia sfociò nei Vespri nizzardi, avvenuti tra l’8 e il 10 febbraio, che vennero militarmente repressi, con cariche di cavalleria e numerosi arresti. Nella seduta dell’8 marzo il primo dei non eletti contestò la legittimità dell’elezione di Garibaldi.

Victor Hugo si alzò a parlare in sua difesa, affermando che soltanto Giuseppe Garibaldi era intervenuto in difesa della Francia, al contrario di nazioni o re, affermazione che suscitò aspre polemiche.

« Je ne dirai qu’un mot. La France vient de traverser une épreuve terrible, d’où elle est sortie sanglante et vaincue. On peut être vaincu et rester grand. La France le prouve. La France, accablée en présence des nations, a rencontré la lâcheté de l’Europe. De toutes ces puissances européennes, aucune ne s’est levée pour défendre cette France qui, tant de fois, avait pris en main la cause de l’Europe… Pas un roi, pas un État, personne! Un seul homme excepté… Où les puissances, comme on dit, n’intervenaient pas, eh bien un homme est intervenu, et cet homme est une puissance. Cet homme, Messieurs, qu’avait-il? Son épée. Je ne veux blesser personne dans cette Assemblée, mais je dirai qu’il est le seul, des généraux qui ont lutté pour la France, le seul qui n’ait pas été vaincu. »

Fu impedito a Garibaldi di tenere il suo discorso all’Assemblea Nazionale e, per protesta, il giorno successivo si dimise. La sua dichiarazione di rinuncia all’incarico fu lungamente applaudita dall’opposizione e da parte della maggioranza. Alla folla di francesi che attendeva Garibaldi fuori dall’Assemblea, egli così si rivolse: «Io ho sempre saputo distinguere la Francia dei preti dalla Francia repubblicana, che sono venuto a difendere con la devozione di un figlio.»

Ultimi anni e morte a Caprera

Garibaldi coniò il detto l’«Internazionale è il sole dell’avvenire», per quanto riguardava l’Internazionale; prendendo posizione in favore della Comune di Parigi, fu eletto deputato alla nuova Assemblea Nazionale francese in diversi dipartimenti metropolitani: Savoia, Parigi, Basso Reno, Digione e Nizza accettò per poi dare le dimissioni.

Per le continue inondazioni del Tevere , Giuseppe Garibaldi propose un piano ideato da Alfredo Baccarini, ma venne scartato per l’elevato bisogno finanziario. Nel giugno del 1872 Benedetto Cairoli propose una legge sul suffragio universale, mentre Garibaldi il 1º agosto pubblicò un «Appello alla Democrazia». Intanto le sue condizioni peggiorarono: dal 1873 ebbe bisogno delle stampelle, nel 1880 verrà portato in carrozzina.

Nella primavera del 1879 organizzò il congresso, convocando 92 personalità rappresentative della democrazia, di esse intervennero in 62 il 21 aprile 1879 in cui chiedeva l’abolizione del giuramento e esprimeva il suo appoggio al suffragio universale. Portò con sua comunicazione il 26 aprile la formazione della Lega della Democrazia, dai 44 membri di cui si effettuerà una commissione esecutiva di 16 membri, un giornale venne alla luce: La lega della Democrazia. Il loro movimento avrà successo portando all’elezione di ottobre del 1882 da 620 000 elettori a circa 2 000 000

Intanto aveva scritto alcuni romanzi: nel 1870 uscirono Clelia, ambientato nel 1849 a Mentana, e Cantoni il volontario, dedicato ad Achille Cantoni, il volontario forlivese che gli salvò la vita nel corso della Battaglia di Velletri del 1849. Nel 1874 fu pubblicato I Mille, la storia di una donna, Marzia, che, travestita da uomo, si univa ai volontari. Rivisitò le Memorie nel 1871-1872 giungendo nella rievocazione alla campagna dei Vosgi: rispetto alla versione precedente del testo inasprì i toni contro Mazzini e la Chiesa. Redasse in seguito Manlio, un resoconto delle sue avventure in Sud America e del suo ritorno in Italia. I proventi dei libri diminuirono nel corso del tempo. Nella sua vita non si limitò a questi scritti, ma scrisse anche due inni militari, un poema autobiografico in endecasillabi, un Carme alla morte e vari sonetti e rime, poi raccolti e pubblicati.

Il 2 dicembre 1874 Pasquale Stanislao Mancini propose al parlamento una rendita vitalizia al condottiero; il 19 dicembre viene approvata alla Camera (si contarono 307 si e 25 no), mentre il Senato l’approvò solo il 21 maggio 1875; la pensione era di 50 000 lire annue a cui si aggiungeva una rendita annua. Garibaldi inizialmente rifiutò per poi accettarla l’anno successivo.

Il 26 gennaio 1880 sposò la piemontese Francesca Armosino, sua compagna da 14 anni e dalla quale ebbe tre figli. Nel 1882 fece il suo ultimo viaggio in occasione del sesto centenario dei Vespri: per tale ricorrenza partì il 18 gennaio, prima giunse a Napoli che lascerà il 24 marzo raggiungendo Palermo il 28 marzo; durante il tragitto nella città regnò il silenzio in segno di rispetto. Ritornerà a Caprera il 17 aprile. Poco dopo il ritorno la bronchite peggiorò, e per tre giorni Garibaldi venne alimentato artificialmente. Fu assistito dal medico di una nave da guerra ancorata nell’isola vicina di La Maddalena (La Cariddi) Alessandro Cappelletto e morì il 2 giugno 1882 alle 18.22, all’età di quasi 75 anni, per una paralisi della faringe che gli impedì di respirare. Nel testamento, una copia del quale è esposta nella casa-museo sull’isola di Caprera, Garibaldi chiedeva espressamente la cremazione delle proprie spoglie, desiderio disatteso. La salma giace a Caprera nel cosiddetto Compendio garibaldino, in un sepolcro chiuso da una massiccia pietra grezza di granito.

Le sue ultime parole, secondo quanto assicurato in seguito da Francesca Armosino, furono: «Muoio con il dolore di non vedere redente Trento e Trieste». Giuseppe Garibaldi, massone e anticlericale convinto, deista ma non ateo inserì nel proprio testamento anche alcuni passaggi tesi a sventare eventuali tentativi di conversione alla religione cattolica negli ultimi attimi della vita:

«Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo, e della confusione che sovente vi succede, s’inoltra, e mettendo in opera ogni turpe stratagemma, propaga coll’impostura in cui è maestro, che il defunto compì, pentendosi delle sue credenze passate, ai doveri di cattolico: in conseguenza io dichiaro, che trovandomi in piena ragione oggi, non voglio accettare, in nessun tempo, il ministero odioso, disprezzevole e scellerato d’un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare. E che solo in stato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi ad un discendente di Torquemada»

La concezione religiosa di Giuseppe Garibaldi non è mai stata chiara ed omogenea, e la storiografia tende ad escluderlo dalle tradizionali ortodossie religiose. Nemico del clero e della Chiesa, Garibaldi non è tuttavia mai stato miscredente, ma sempre profondamente religioso. Più volte il generale si dichiarò cristiano, pur rimanendo un nemico giurato della Chiesa e del Papa, mentre alla fine della sua vita si avvicinò come già detto al deismo massonico. In generale, comunque, la sua non chiara dimensione religiosa viene comunemente intesa come una personale sintesi de “l’ateismo, lo spiritismo, il deismo, un vago cristianesimo liberale”

La medaglia de “I Mille” di Giuseppe Garibaldi

La medaglia dei Mille di Giuseppe Garibaldi venne istituita dal comune di Palermo il 21 giugno 1860, durante la dittatura di Garibaldi, e concessa a quei garibaldini che avevano preso parte allo sbarco a Marsala. La prima distribuzione di questa medaglia avvenne il 24 ottobre 1860 in piazza Vittoria dal prodittatore Antonio Mordini e consegnata a quanti, feriti o per ragioni di servizio, si trovavano a Palermo. Una seconda distribuzione venne fatta, alla presenza di Garibaldi, a Napoli in piazza San Francesco da Paola il 4 novembre 1860, ai 475 garibaldini convenuti alla celebrazione.

Una Commissione nazionale fu istituita nel dicembre 1861, per ufficializzare quel primo elenco dei Mille che sbarcarono a Marsala. La Commissione era composta dai generali: Vincenzo Giordano Orsini, Francesco Stocco, Giovanni Acerbi; i colonnelli: Giuseppe Dezza, Guglielmo Cenni, Benedetto Cairoli, Giorgio Manin; i maggiori: Luigi Miceli e Antonio Della Palù, Giulio Emanuele De Cretsckmann, Francesco Raffaele Curzio e Davide Cesare Uziel; i capitani: Salvatore Calvino e Achille Argentino. La Commissione rilasciò le autorizzazioni a fregiarsi della medaglia decretata dal Consiglio civico di Palermo il 21 giugno 1860.

Nonostante l’ampia documentazione, non è ancora certo l’esatto numero di medaglie conferite. Il Ministero della Guerra del proclamato Regno d’Italia, con circolare del 14.7.1861 e su decisione del sovrano Vittorio Emanuele II°, autorizzò i “Mille” sbarcati a Marsala l’11 Maggio 1860, a fregiarsi della medaglia dei Mille di Garibaldi, invitando gli aventi diritto a trasmettere il titolo comprovante l’ottenuta insegna, in seguito al quale veniva rilasciata una dichiarazione dell’autorizzazione conseguita. Un primo Ruolo nominativo di coloro che erano sbarcati a Marsala venne redatto in data 19.4.1862 da una apposita Commissione sulla scorta degli attestati rilasciati dal Comune di Palermo. Successivamente un Giurì d’Onore riesaminò i titoli dei componenti la spedizione a seguito del quale il Ministero della Guerra, con Bollettino Militare n. 21 del 6.4.1864 compilava un elenco di 1072 nominativi che avevano diritto a fregiarsi della medaglia e che, con legge successiva del 22.1.1865, usufruirono di una pensione annua vitalizia di £ 1000. A seguito di un’inchiesta informativa effettuata negli anni 1877 e 1878, venne stilato e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 12 Novembre 1878 un nuovo Ruolo che aumentava il numero degli aventi diritto a 1.089.

Il numero dei “Mille

L’elenco con ruolo definitivo della spedizione dei Mille di Garibaldi e che dovettero avere la medaglia, fu pubblicato in Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia del 12 novembre 1878, revisione del precedente elenco dei Mille di Marsala di Giuseppe Garibaldi pubblicato dal Ministero della Guerra nel bollettino n. 21 (Anno 1864), per concedere la medaglia e le relative pensioni “di guerra” ai volontari, aventi diritto ai sensi della legge 22 gennaio 1865, n.2119.
Sulla base della documentazione disponibile gli storici hanno stimato il numero dei volontari partiti il 5 maggio 1860 da Genova in circa 1.150, dei quali 1.089 sarebbero sbarcati a Marsala, in quanto una sessantina erano stati destinati alla diversione dello Zambianchi, alcuni avevano lasciato la spedizione per contrasti politici e 4 o 5 si erano aggregati a Porto Santo Stefano nascondendosi nelle stive. A Porto Santo Stefano furono respinti molti militari che avrebbero voluto unirsi alla spedizione.
Va anche considerato che lo storico Mario Menghini riporta il fatto che, durante la sosta a Talamone, Garibaldi scartò dagli effettivi un centinaio di volontari non ritenuti idonei per vari motivi, volontari scartati che fecero quindi ritorno a Genova via Livorno (Supplemento al Movimento del 13 maggio 1860, La Spedizione Garibaldina); secondo tale dato il numero dei volontari dovrebbe pertanto essere diminuito, salvo eventuali rimpiazzi sul luogo.

Occorre però considerare che l’Esercito garibaldino, anche se ispirato alle norme del regolare Corpo dei Cacciatori delle Alpi, era composto di volontari organizzati autonomamente in maniera spesso improvvisata, pertanto le ricostruzioni da parte degli storici, basate solo su documenti, possono incontrare limiti, in quanto la formazione dei reparti e la loro consistenza erano variabili e non sempre documentate come in un esercito regolare, anche per mancanza di tempo e di personale dedicato.

Dopo l’arrivo della Spedizione dei Mille di Garibaldi  a Marsala, probabilmente prima della assegnazione della medaglia, il comitato patriottico di Palermo scriveva indicando in oltre 1.500 i volontari garibaldini sbarcati:

«Garibaldi è fra noi, seguito da tremila combattenti, dei quali più della metà sono i cacciatori delle Alpi, innanzi a cui i Tedeschi fuggirono a Como;… »
(Storia popolare della rivoluzione di Sicilia e della impresa di Giuseppe Garibaldi – Franco Mistrali – pag. 88)

E d’altro lato nel suo decreto il comandante borbonico della piazza di Palermo diminuiva ad 800 il numero degli sbarcati:

«La più grande violazione al diritto delle genti ha ricondotto i pericoli nell’Isola ed in questa città. Ottocento avventurieri col loro generale ed uno stato maggiore sbarcarono a Marsala da due legni sardi il Lombardo ed il Piemonte, il giorno li dello stante col disegno di provocare la rivolta ed avvolgere il paese nell’anarchia. »
(Storia popolare della rivoluzione di Sicilia e della impresa di Giuseppe Garibaldi – Franco Mistrali – pag. 89)

Lo storico Mario Menghini nella sua opera “La Spedizione garibaldina di Sicilia e di Napoli”, pubblicata nel 1907, riporta il testo di alcune lettere di partecipanti con medaglia alla Spedizione dei Mille di Garibaldi, già pubblicate in altri giornali, dalle quali si desume che a Talamone i volontari inquadrati sarebbero stati oltre 1.500 (Lettera da campo di Talamone presso … del 7 maggio 1860), numero che viene confermato anche dopo lo sbarco in una successiva lettera del 12 maggio 1860, mentre in altra lettera pubblicata in “Unità Italiana” del 29 maggio 1860, si parla di 1.200 sbarcati. Il Menghini cita anche che, durante la sosta a Talamone, Giuseppe Garibaldi scartò dagli effettivi un centinaio di volontari non ritenuti idonei per vari motivi, volontari scartati che fecero quindi ritorno a Genova via Livorno (Supplemento al Movimento del 13 maggio 1860), secondo tale dato il numero dei volontari dovrebbe pertanto essere diminuito, salvo eventuali rimpiazzi sul luogo.
Sul numero dei volontari partiti il giorno 9 da Talamone, Carlo Agrati cita che il Sylva li fa ammontare a 1.150, equipaggi compresi, (400 sul Piemonte e 750 sul Lombardo), mentre dall’archivio Cortes risulta che sul Lombardo i volontari imbarcati quel giorno erano 627, che sommati ai 400 del Piemonte darebbero il totale di 1.027 imbarcati, cifra che escludendo gli equipaggi, se corretta, sembra confermare quanto affermato dallo storico Mario Menghini sull’esclusione di 100 volontari per inidoneità o altri motivi. In effetti sul numero dei volontari effettivamente partiti da Genova, Talamone e poi sbarcati esistono anche altre diverse versioni di varie fonti, anche se non riconosciute (vedere:Il numero dei “Mille” e La partenza e la stampa internazionale).
Un’altra fonte di informazioni circa il numero di volontari imbarcati a Genova è desunta dai “Dispacci elettrici dell’Agenzia Stefani” pubblicati anche nella Gazzetta Ufficiale dell’epoca e riportati anche dalla stampa internazionale.
Nella Gazzetta Ufficiale del 9 maggio 1860, dispaccio n. 419, Parigi 9 maggio sera, il giornale Morning Post riporta come positivo che Garibaldi si è imbarcato a Genova con 3.000 individui, mentre il dispaccio n. 420, Parigi 9 maggio (sera) – il giornale La Patrie scrive che, indipendentemente dal legno su cui si imbarcò Garibaldi, due altri vapori lasciarono Genova con 1.400 Cacciatori delle Alpi, romagnoli, lombardi e genovesi; e che altri quattro legni han dovuto da differenti punti raggiungere Garibaldi. “La spedizione (continua il giornale La Patrie) è organizzata su vasta scala: possiede armi, munizioni viveri, materiale per accampamento, mezzi per sostenere diversi mesi di lotta”. Le sottoscrizioni raccolte in Inghilterra e in Italia non essendo bastevoli a coprire le spese della spedizione, La Patrie domanda chi ha fornito il complemento del denaro necessario. 
Il dispaccio n° 421, Parigi, 10 maggio, mattino – Informazioni recano che Garibaldi ha con sé 24 cannoni. Nella Gazzetta Ufficiale del 19 maggio 1860 viene riportato il dispaccio telegrafico n° 453 del 18 maggio, nel quale si annuncia, tra l’altro, lo sbarco di ulteriori volontari “emigrati siciliani” presso Tre Fontane, senza indicarne la consistenza, né il numero o la nave che li trasportava.
Le notizie raccolte da varie fonti sul numero dei volontari della spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi sono pertanto diverse, anche se più volte le fonti citate indicano il numero dei volontari in circa 1.500, considerando la difficoltà di documentare una forza militare irregolare, che si formava rapidamente in semi clandestinità tollerata e il fatto che tale formazione armata doveva anche documentarsi in condizioni precarie, tutti i dati che si possono ricavare, anche con eventuali ragionevoli arrotondamenti, forse non renderanno mai il numero reale di quanti partirono allora e/o si unirono strada facendo alla spedizione.
Si può ipotizzare che un ulteriore utile riscontro potrebbe essere fornito dal rinvenimento di eventuali “rapporti riservati”, che si presume sicuramente il Regno di Sardegna facesse redigere, in quanto non appare verosimile che Cavour non si preoccupasse di conoscere l’entità della spedizione, nella quale presumibilmente si arruolavano anche alcuni “cavourriani” per osservare dall’interno e riferire in caso di progetti contrari a quanto Cavour riteneva opportuno. Di tale fatto non c’è ovviamente prova, ma è più che logico che il grande statista avesse predisposto un sistema di monitoraggio e controllo, per evitare che la situazione potesse sfuggire di mano, sia militarmente, che politicamente, fatto questo comprovato dal blocco delle partenze per alcuni successivi sbarchi che i mazziniani avevano in mente di dirigere verso lo Stato Pontificio, prima con Medici e poi con Pianciani e Nicotera, spedizioni che vennero dirottate tutte verso la Sicilia, le ultime due anche in parte con l’uso della forza.

Il numero totale dei garibaldini

Secondo lo storico Trevelyan al termine della campagna nel mese di novembre 1861 l’armata garibaldina avrebbe raggiunto il numero di 50.000 arruolati, di cui 7.000 garibaldini dislocati a presidio della Sicilia e 43.000 nel continente, di questi ultimi un buon numero furono gli arruolati nella fase finale e altri in fase di arruolamento. Va osservato che nel numero di 50.000 garibaldini erano considerate anche le formazioni irregolari, nate ad opera di privati o varie milizie aggregate e parecchi garibaldini di comodo, che si arruolavano solo per ritirare il cibo e la paga e che Garibaldi commentava con queste parole:

« … un terzo era presente nel momento della battaglia e gli altri due terzi solo al momento della paga o del rancio. »
(Garibaldi and the making of Italy – Appendix J – pag. 343)

Il nucleo centrale delle forze garibaldine era costituito dagli oltre 20.000 settentrionali sbarcati con le spedizioni da Genova e Livorno, di cui circa la metà erano in ospedale oppure impiegati nelle guarnigioni e nei pattugliamenti nelle province occupate. Anche se le fonti forniscono numeri diversi si può ragionevolmente ritenere che alla battaglia del Volturno parteciparono oltre 20.000 garibaldini di cui la metà settentrionali e 28.000 soldati borbonici.
Attualmente è in corso un’opera di classificazione e verifica del numero totale dei garibaldini a fine impresa, che potrebbe vedere aumentato il numero globale dei partecipanti alla spedizione finora stimato.

I garibaldini stranieri

L’Esercito meridionale comprendeva numerosi stranieri: la Legione ungherese, la Lègion de Flotte (francesi), la Legione Britannica, molti polacchi tra cui il generale Aleksander Milbitz, romeni e qualche belga. Gli ungheresi, inizialmente in 50 arrivarono a essere un folto gruppo di 500 volontari, raggruppati nella Brigata “Eber” comandata dal colonnello brigadiere Nándor Éber (1825-1885), corrispondente del quotidiano The Times con la cittadinanza inglese e del tenente colonnello Lajos Tukory, che cadde a Palermo il 29 maggio 1860. Il generale Stefano Turr fu la personalità di maggior rilievo. Fu costituita anche una “Compagnia estera”,  formata  dai  soldati  borbonici  che  avevano abbandonato Francesco II.

Le componenti

Circa un sesto dei partecipanti alla spedizione dei Mille di Garibaldi, proveniva dalla provincia di Bergamo, che, pertanto, può fregiarsi del titolo di provincia dei Garibaldini (dai memoriali di Guido Sylva, garibaldino e storico dei Mille, ferito a Calatafimi, pluridecorato, commissionario e già Ufficiale dell’Esercito Sabaudo). In base alla provenienza regionale, i Mille possono essere così suddivisi (totale 1126):

  • Piemonte 29
  • Circondario di Nizza 3
  • Liguria 160
  • Lombardia 437 (di cui 179 bergamaschi; 63 bresciani; 33 mantovani)
  • Trentino 10
  • Alto Adige 1
  • Friuli 21
  • Veneto 150
  • Emilia e Romagna 39
  • Toscana 82
  • Marche 11
  • Umbria 5
  • Lazio 29
  • Sardegna 51
  • Abruzzo 12
  • Campania 17
  • Puglia 4
  • Basilicata 1
  • Calabria 21
  • Savoia 1
  • Sicilia 42

I rimanenti sono nati all’estero, o di provenienza ignota, o stranieri. Il componente più giovane fu il veneto Giuseppe Marchetti, di Chioggia, che si imbarcò da Quarto dei Mille all’età di undici anni (ancora da compiere) assieme al padre Luigi. Il bergamasco Adolfo Biffi fu invece il più giovane a morire, ucciso nel primo assalto a Calatafimi ad appena 13 anni. Il componente della spedizione dei Mille più longevo è stato Giovanni Battista Egisto Sivelli, genovese, nato nel 1843 e morto a 91 anni nel 1934.