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MARINETTI , il futurismo, la guerra, FTM

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Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 22 dicembre 1876 – Bellagio, 2 dicembre 1944) è stato un poeta, scrittore e drammaturgo italiano. È conosciuto soprattutto come il fondatore del movimento futurista, la prima avanguardia storica italiana del Novecento.

Le sue prime poesie in lingua francese, pubblicate su riviste poetiche milanesi e parigine, vengono notate soprattutto in Francia, da poeti come Catulle Mendès e Gustave Kahn. In questo periodo Marinetti compone soprattutto versi liberi di stampo simbolista o liberty, che risentono dell’influenza di Stéphane Mallarmé e soprattutto di Gabriele D’Annunzio.

I suoi rapporti con D’Annunzio sono sin dall’inizio ambivalenti: nella scena parigina i due poeti italiani sono visti come rivali, ma il successo di D’Annunzio oscura quello del più giovane collega, che spesso anzi è consultato come fonte di prima mano di aneddoti sul “Vate”: diversi di questi aneddoti sono raccolti in due volumi, D’Annunzio intime e Les Dieux s’en vont, D’Annunzio reste. La produzione di Marinetti si distingue da quella dannunziana per il particolare gusto per l’orrido e il grottesco.

Tra il 1905 e il 1909 dirige (in un primo momento in collaborazione con Sem Benelli e Vitaliano Ponti) la rivista milanese Poesia, di cui è fondatore e principale finanziatore. All’inizio si tratta di una rivista eclettica, che ha il merito di proporre in Italia alcuni autori simbolisti (soprattutto francesi e belgi) ancora sconosciuti. Solo nel 1909 essa divenne il primo organo ufficiale di un nuovo movimento poetico: il Futurismo.

La nascita del Futurismo

Amante della velocità, nel 1908 Marinetti è stato ripescato in un fossato fuori Milano in seguito ad un banale incidente: per evitare due ciclisti era uscito di strada con la sua automobile, un’Isotta Fraschini. L’episodio venne trasfigurato nel Manifesto del Futurismo, composto nello stesso anno: Marinetti viene estratto dal fossato e si sente un uomo nuovo, deciso a liberarsi degli orpelli decadentisti e liberty, e che detta ai suoi compagni un programma fortemente rivoluzionario: occorre chiudere i ponti col passato, «distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie» e cantare «le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa glorificare la guerra — sola igiene del mondo —, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore del libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna ‘sottomessa e timorata’.»

A fine gennaio 1909 Marinetti manda il Manifesto ai principali giornali italiani. La «Gazzetta dell’Emilia» di Bologna lo pubblica il 5 febbraio[3]. Il 20 febbraio il Manifesto venne pubblicato sulla prima pagina del più prestigioso quotidiano francese, Le Figaro (pare che Marinetti sia riuscito a farlo pubblicare grazie all’interessamento di un vecchio amico egiziano del padre, azionista del quotidiano), conferendo al progetto marinettiano una risonanza europea.

Primi scandali e successi

Il Manifesto viene letto e dibattuto in tutta Europa, ma le prime opere ‘futuriste’ di Marinetti non hanno la stessa fortuna. In aprile la prima del dramma satirico Le roi Bombance (Re Baldoria), composto nel 1905, viene sonoramente fischiata dal pubblico e da Marinetti stesso, che introduce così un altro degli elementi essenziali del Futurismo: la “volontà d’essere fischiati”; l’autore tuttavia affronterà successivamente a duello un recensore troppo severo.

Anche il dramma La donna è mobile (Poupées électriques), rappresentato a Torino non aveva ottenuto molto successo. Oggi lo si ricorda in una versione successiva, col titolo Elettricità sessuale, soprattutto per l’apparizione in scena di automi umanoidi, dieci anni prima che il romanziere ceco Karel Čapek inventasse la parola “robot”.

Marinetti con alcune pubblicazioni futuriste

Nel 1910 il suo primo romanzo, Mafarka il futurista, viene assolto dall’accusa di oltraggio al pudore. Ma in quello stesso anno Marinetti trova alleati inattesi: tre giovani pittori (Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo) decidono di aderire al Movimento. Insieme a loro (e a poeti come Aldo Palazzeschi) Marinetti lancia le serate futuriste: spettacoli teatrali in cui i futuristi declamano i loro manifesti davanti a una folla che spesso accorre per il solo piacere di colpirli con ortaggi vari. Ma l’happening più riuscito del periodo è il lancio del Manifesto Contro Venezia passatista dal Campanile della Basilica di San Marco: nel volantino Marinetti propone di “colmare i piccoli canali male odoranti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi” per “preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa dominare il mare Adriatico, gran lago Italiano”.

Inviato di guerra durante la guerra italo-turca, da sinistra Filippo Tommaso Marinetti, Ezio Maria Gray, Jean Carrere, Enrico Corradini e G. Castellini

Guerra in Libia (1911)

Il 29 settembre del 1911 le truppe italiane sbarcarono sulla Quarta sponda, come si cominciò a chiamarla; l’azione era nell’aria da tempo con una motivazione politica, una ideale e un’altra – decisiva benché inconfessata — economica: il Banco di Roma aveva da anni forti interessi in terra libica e fu determinante nell’azione del governo; era diffusa la convinzione che, se non l’avesse fatto l’Italia, qualche altra potenza avrebbe tolto quei possedimenti al cadente Impero ottomano. Quanto ai motivi politici e ideali, da anni l’opinione pubblica nazionalista e borghese invocava la rinascita dopo i disastri coloniali di fine Ottocento.

Marinetti è il solo futurista a perorare la causa della guerra, anche se come al solito usa il plurale nelle dichiarazioni: «Orgogliosi di sentire uguale al nostro il fervore bellicoso che anima tutto il Paese, incitiamo il governo italiano, divenuto finalmente futurista, ad ingigantire tutte le ambizioni nazionali, disprezzando le stupide accuse di pirateria». Esorta i propri compagni a seguirlo su questa strada, ma l’invitò a lasciare «da parte i versi, i pennelli, gli scalpelli e le orchestre» per andare a prendere ispirazione direttamente dalla guerra, poiché «son cominciate le rosse vacanze del genio».

Il poeta aveva chiesto di andare in Libia come giornalista, come inviato del giornale francese «L’Intransigeant» di Leon Bailby del quale è anche socio. Ma le autorità, che avevano largheggiato in nulla osta con i rappresentanti dei fogli nazionali, gli avevano negato il permesso: l’idea che i suoi articoli saltassero la censura italiana e apparissero in Francia, non persuadeva il Ministero dell’Interno. E così proprio Marinetti, il promotore e la guida di una delle più riuscite manifestazioni svoltesi a Milano in favore della spedizione militare in Libia, aveva rischiato di restare sulla banchina palermitana. In extremis, era poi giunto un ordine telegrafico di Giolitti, sicché il poeta si era potuto imbarcare, con bersaglieri, carri, armi, cavalli e materiali vari, la mattina del 9 ottobre 1911. La guerra italo-turca per il dominio sulla Libia è in atto. Comandata dal vecchio ammiraglio Luigi Giuseppe Faravelli, che s’è sentito male dopo le prime cannonate, la flotta ha messo a tacere in breve le artiglierie turche dei forti Hamidieh e Sultanieh, sulla costa tripolina. Del resto, non c’era confronto tra i pezzi della «Napoli», della «Ferruccio», della «Varese», della «Roma» e delle altre corazzate italiane, e quelli di Nashet Bey, l’ufficiale turco che comanda la piazza di Tripoli. Gli uni sono cannoni da 90 o da 240 millimetri di calibro; gli altri sono cannoni da 305 o da 343. Perciò le navi italiane potevano colpire senza essere colpite. Tanto che i giornalisti, in vedetta dietro le murate, hanno stentato a scorgere le bianche colonne di spuma sollevate dai proiettili turchi che cadevano lontani.

Il 12 ottobre con Marinetti sbarcano sulla spiaggia di Tripoli, in un disastroso caos di uomini e di mezzi, parecchi altri giornalisti. E prim’ancora di telegrafare all’«Intransigeant», il poeta scrive a Balilla Pratella questa cartolina: «Carissimo, spero di tirare a qualche testa di turco. Ma sarà difficile. Ritornerò presto e riprenderemo tutto energicamente». E in effetti, tranne che del colera, sul quale però la censura esige il silenzio, c’è ben poco da raccontare ai giornali. Gli italiani costruiscono trinceramenti attorno alla città, la popolazione tripolina sembra accogliere con rassegnazione i nuovi padroni, i turchi paiono spariti oltre le palme dell’oasi. E invece la mattina successiva 23 ottobre, la furia dei turchi e la rabbia dei mehalla libici, inquadrati sotto la bandiera del Sultano, investono su due lati i trinceramenti tenuti dai bersaglieri a Sciara Sciat, nell’oasi fuori della città, ed è lo scempio: i soldati in grigioverde, che non riescono a ripiegare in tempo, sono massacrati dagli attaccanti e dalla gente dell’oasi che s’è sollevata: turchi e libici non fanno prigionieri, né tanto meno ne fa la folla; gl’italiani sono buttati a grappoli nei fossi, inchiodati agli alberi, accecati, squartati; solo il calar della sera interrompe la carneficina.

Il giorno dopo, vuoi per sopraffazioni ed errori compiuti dagl’italiani, vuoi per un sussulto d’indipendenza, vuoi per comunanza di fede con i turchi, lampi di ribellione si sprigionano anche a Tripoli: e il 26, infine, Nashet Bey e Suleiman el Baruni lanciano un altro massiccio attacco contro i reparti dell’840 Reggimento di fanteria, attestato tra Bu Meliana, Sidi Messri e l’altura di Henni. La cavalleria libica riesce a sfondare le linee difensive italiane e a impadronirsi della casa di Gemal Bey, un punto strategico; ma poi, per l’intervento di nuove forze grigioverdi appoggiate dall’artiglieria navale e terrestre, la situazione si capovolge, il comandante turco ordina il ripiegamento e, dopo aver infierito nel combattimento, gl’italiani avviano nell’oasi e in città repressioni e rappresaglie che destano l’indignazione degli osservatori stranieri più sensibili.

Marinetti, sull’onda del contrattacco italiano, giunge tra i primi nella riconquistata casa di Gemal Bey, E scriverà nei suoi appunti presi sul campo: «Vedo avanzarsi un artigliere i cui piedi affondano in una poltiglia di sabbia, di sangue e di bossoli di cartucce. Ridendo dagli occhi azzurri, egli balbetta con le mascelle squarciate: “Otto! Ne ho uccisi otto! ” Ma nulla eguaglia la magnificenza epica di quel sergente che con la bocca imbavagliata di bende insanguinate alza le due mani verso di me, ad ogni momento, per indicarmi con le dieci dita aperte che ha ucciso dieci nemici ». Marinetti partecipa a sua volta al contrattacco, presto divenuto una rappresaglia. Dopo due mesi scrive, ancora a Pratella: «Ebbi anche il piacere di battermi molte volte, seguendo i plotoni perlustratori all’assalto delle case arabe nell’oasi». Si compiace poi di un combattimento in cui «ebbi la gioia di vedere tre arabi cadere sotto i colpi della mia pistola Mauser».

Turchi e mehalla indietreggiano, ma il generale Caneva non li insegue; si attesta, si trincera, protegge con chilometri di cavalli di Frisia e chilometri di sacchetti l’insediamento italiano, gonfio ormai di 40.000 uomini. Il Governo lo sprona ma lui non si muove. Vittorio Emanuele III il 5 novembre firma il decreto in forza del quale Cirenaica e Tripolitania passano sotto la sovranità italiana. Sulla «quarta sponda» il pletorico corpo di spedizione attende che i tempi maturino ma tutto stagna. Marinetti non sopporta quella fiacca e una mattina annuncia: «Non ci sono più proiettili, non ci sono più camicie: io me ne vado». E torna in patria per scrivere La battaglia di Tripoli, il racconto sopra le righe dell’esperienza vissuta a Sidi Messri, Bu Meliana e Henni: ne stamperà 38.000 copie, e ne caverà decine e decine di declamazioni applaudite qui e là in Italia, dove già si comincia a cantare “Tripoli, bel suol d’amore”.

Nel frattempo lavora a un romanzo in versi violentemente anticattolico e antiaustriaco: Le monoplan du Pape (L’aeroplano del Papa, 1912) e cura un’antologia dei poeti futuristi. Ma in realtà i suoi sforzi di rinnovamento del linguaggio poetico lo lasciano ancora insoddisfatto, tanto che nella prefazione all’antologia lancia una nuova rivoluzione: è tempo di farla finita con la sintassi tradizionale, per passare alle Parole in libertà.

Parole in libertà e parole in guerra

Le parole in libertà sono una tecnica poetica espressiva del tutto nuova, in cui è distrutta la sintassi, abolita la punteggiatura e si ricorre anche ad artifici verbo-visivi. Diversi colleghi che avevano aderito al futurismo restano disorientati dalla nuova proposta di Marinetti: è il caso di Aldo Palazzeschi e di Corrado Govoni, che di lì a poco abbandoneranno il movimento. Questi grandi talenti vengono rimpiazzati da altri nomi, meno celebri: a partire dal 1912 il Futurismo conosce il momento di massimo proselitismo, anche grazie al sostegno (per la verità piuttosto effimero) della rivista fiorentina Lacerba diretta da Giovanni Papini e Ardengo Soffici. In questo periodo Marinetti compone Zang Tumb Tumb, reportage della guerra bulgaro-turca redatto in parole in libertà. Nel 1914 compie anche un importante viaggio a Mosca e a Pietroburgo, dove farà la conoscenza dei futuristi russi. Questi ultimi, pur accogliendo Marinetti tra loro, solleveranno critiche sulla pratica delle parole in libertà e manterranno una certa distanza nei confronti del movimento artistico italiano.

Dopo l’attentato di Sarajevo, Marinetti non esita a schierarsi a favore dell’intervento contro l’Austria e la Germania: verrà arrestato per aver bruciato bandiere austriache in piazza del Duomo a Milano. Quando l’Italia entra in guerra, Marinetti si arruola volontario (prima in un battaglione di ciclisti volontari, poi negli Alpini). Ferito all’inguine, detta in convalescenza un manualetto che otterrà un inatteso successo: Come si seducono le donne. Torna quindi sul fronte, e partecipa sia alla rotta di Caporetto che alla trionfale avanzata di Vittorio Veneto, al volante di un autoblindo Lancia 1Z (esperienza poi narrata nel romanzo L’alcova d’acciaio).

Dal Futurismo al Fascismo

Terminata la guerra (con due medaglie al valore), Marinetti è convinto che sia giunto il momento di fare la rivoluzione. Deluso dalla “vittoria mutilata”, partecipa per breve tempo all’impresa fiumana, ma è deluso da molti seguaci di D’Annunzio ed è invitato da quest’ultimo a lasciare la città.

In questo stesso periodo fonda il Partito Politico Futurista, che nel proprio programma contempla lo “svaticanamento dell’Italia” e il passaggio dalla monarchia alla repubblica (oltre alla distribuzione di terre ai combattenti, la lotta all’analfabetismo e il suffragio universale). Il 23 marzo 1919 Marinetti partecipa con Mussolini all’adunata di piazza San Sepolcro a Milano: da quel momento il Partito Politico Futurista confluisce nei Fasci di combattimento. Il 15 aprile, alla guida di un eterogeneo gruppo costituito da arditi, futuristi e fascisti si scontrò armi in pugno con i militanti anarchici e socialisti che in corteo cercavano di raggiungere piazza Duomo. Nello scontro rimasero uccisi tre giovani operai. Subito dopo Marinetti partecipò attivamente all’assalto all’Avanti!, che culminò con la distruzione della sede del quotidiano socialista.

Marinetti tuttavia tiene a ribadire l’originalità del futurismo rispetto al fascismo, ed è scontento della svolta reazionaria impressa da Mussolini dopo la sconfitta elettorale del novembre 1919 (in seguito alla quale i due vengono arrestati con l’accusa di detenzione illegale di armi da fuoco: Mussolini esce subito, Marinetti dopo una ventina di giorni). In questo periodo redige diversi manifesti politici, tra cui il pamphlet Al di là del Comunismo; nel maggio 1920 interviene al secondo congresso dei Fasci insistendo sulla necessità di “svaticanare l’Italia”, abolire la monarchia e “appoggiare gli scioperi giusti”: ma ormai i fascisti stanno andando nella direzione opposta, e Marinetti decide di dimettersi. Inizia quindi lentamente ma decisamente a divergere dal fascismo: il poeta se ne distaccherà prima della fine dell’anno per tornare sui suoi passi quasi un lustro più tardi.

Deluso dall’accoglienza parigina, Marinetti si riaccosta al Fascismo e a Mussolini, che nel frattempo ha preso il potere. Il regime lo ripaga dedicandogli importanti onorificenze nazionali (1924) ed egli, a sua volta, firma il Manifesto degli intellettuali fascisti (1925). Come ambasciatore del regime, Marinetti viaggia in Sudamerica e in Spagna. Nel 1929 lo stesso Mussolini vorrà Marinetti nell’Accademia d’Italia appena fondata. Il fondatore del Futurismo è ormai diventato un difensore della letteratura e della lingua italiana contro l'”esterofilia” dilagante, con effetti surreali: come quando gli capita di pronunciare discorsi su Giacomo Leopardi “maestro d’ottimismo” o di decantare il Futurismo di Ludovico Ariosto.

Nel frattempo il futurismo si è trasformato da movimento di rottura in scuola poetica, coi suoi congressi, le sue dispute, i suoi generi codificati (le parole in libertà e l’aeropoesia), ecc. Ma le opere futuriste più interessanti del Ventennio restano quelle di Marinetti, che in lavori come Il fascino dell’Egitto o nel dramma Il suggeritore nudo, rivela la sua attenzione alle nuove poetiche italiane ed europee.

Del 1929 è la stesura del Manifesto dell’aeropittura futurista, ispirato al Marinetti padre del futurismo, dall’esperienza di un volo sul Golfo della Spezia e pubblicato nell’omonimo Aeropoema.

Nel settembre 1930 Marinetti e Tato (Guglielmo Sansoni) organizzano il primo concorso fotografico nazionale, e fra il 1930 e il 1931 propongono il Manifesto della fotografia futurista. Attento anche alle arti visive, nell’autunno del 1932 Marinetti indice per l’anno successivo il Premio di pittura Golfo della Spezia ispirato alle bellezze naturali del Golfo della Spezia; sullo stesso tema, dalle pagine del giornale La Terra dei Vivi diretto da Fillia, lancia una sfida a tutti i poeti italiani invitandoli a gareggiare con lui e il suo Aeropoema.

Il 27 gennaio 1934 pubblica il Manifesto dell’Architettura Aerea, redatto con Angiolo Mazzoni e Mino Somenzi, e, alla fine di quello stesso anno, presiede la Prima Mostra nazionale di plastica murale per l’edilizia fascista, organizzata a Genova da Enrico Prampolini, Fillia e F. Defilippis.

La sua posizione di Accademico gli consente alcune prese di posizione critiche nei confronti del regime: neI 1938 escono, sulla rivista futurista Artecrazia, alcuni articoli (probabilmente dettati o ispirati da Marinetti) contro l’antisemitismo e le leggi razziali. Fu anche decisamente avverso all’alleanza dell’Italia con la Germania dominata dal regime nazionalsocialista di Hitler, che già aveva condannato come “arte degenerata” le opere dei futuristi.

Ancora in guerra

Malgrado la non più giovane età, Marinetti non rinuncia al fascino della guerra. Del resto, in un’intervista del 1926 a Vitaliano Brancati aveva affermato che la guerra futura sarebbe stata combattuta dai vecchi, mentre i giovani sarebbero stati risparmiati per “la fecondazione della razza”. Coerente coi suoi principi, Marinetti partecipa come volontario alla guerra di Etiopia (1936) e addirittura (a sessantasei anni) alla spedizione dell’ARMIR in Russia. Le esperienze su questi fronti sono raccontate ne Il poema africano della Divisione “28 ottobre” (1937) e nel romanzo postumo Originalità russa di masse distanze radiocuori.

L’esperienza russa si rivela però fatale. Tornato in Italia, stanco e malato, Marinetti detta ancora diverse opere a carattere memoriale, tra cui La grande Milano tradizionale e futurista, e aderisce alla Repubblica Sociale Italiana, che per certi versi rappresenta un ritorno agli ideali fascisti repubblicani del 1919.

Morte

Marinetti morì a Bellagio, nell’attuale Hotel Excelsior Splendide, sul Lago di Como, il 2 dicembre 1944, in seguito a una crisi cardiaca: aveva appena scritto il suo ultimo testo, Quarto d’ora di poesia della X Mas.

La notizia fece velocemente il giro del mondo. Il 3 dicembre anche il New York Times dedicò alla morte del Poeta un articolo (“Dr. F. T. Marinetti, Italian Author, 67; Early Associate of Mussolini, Also Known for Poems, Dies”). Giunsero ad onorare le spoglie l’aeropoeta Paolo Buzzi e il compositore futurista Luigi Russolo. Lo scultore Spartaco Di Ciolo eseguì il calco funerario del volto del poeta. Il giorno dopo fu celebrato il funerale nella basilica di San Giacomo di Bellagio.

Il solenne funerale di Stato, voluto da Mussolini, fu celebrato a Milano il 5 dicembre nella chiesa di San Sepolcro, con grande partecipazione della cittadinanza: il poeta subito dopo venne sepolto al Cimitero Monumentale.

Opere

Filmografia

Onorificenze

  • Medaglia di bronzo al valor militare «Tenente 9 raggruppamento bombardieri 35 gruppo 161 batteria – Durante un’aspra azione, colla parola e con l’esempio incitava i dipendenti all’adempimento del proprio dovere. Ferito mentre si adoperava attivamente a rimettere in servizio un pezzo travolto da un colpo nemico e costretto ad allontanarsi, rivolgeva ancora parole d’incoraggiamento al personale, rammaricandosi soltanto di dovere abbandonare la linea di fuoco. Monte Kuk, 12-14 maggio 1917» — 25 novembre 1919
  • Medaglia di bronzo al valor militare «Tenente Milizia Territoriale 8 squadriglia automitragliatrice blindate. – Comandante di una automitragliatrice, esempio di mirabile coraggio temerario, di patriottismo impetuoso e di entusiasmo animatore, entrò primo in Tolmezzo, catturò nel paese di Amaro l’intero comando di Tolmezzo e masse di soldati, vincendo con audacia i tentativi di resistenza e di ribellione, tagliando a viva forza le comunicazioni telefoniche del nemico. Tolmezzo – Amaro, 4 novembre 1918» — 23 gennaio 1921
  • Medaglia di bronzo al valor militare «Seniore comando 2ª divisione CC.NN. 28 Ottobre – Seniore addetto al comando di una divisione CC.NN. durante tre giorni di aspra lotta, incurante del pericolo, sotto il fuoco nemico si prodigava per l’assolvimento dei compiti affidatigli. Con la parola e con l’esempio infiammava gli animi dei combattenti. Passo Uarieu, 21 gennaio 1936-XIV.» — 7 ottobre 1937
  • Croce al merito di guerra al valore militare «Seniore comando 2ª divisione CC.NN. 28 Ottobre – Seniore addetto a un comando divisionale, con alto senso del dovere e passione, recava in due giorni di aspro combattimento il contributo della sua attività. Espressione di volontarismo guerriero è stato, in ogni istante della battaglia, esempio di calma sotto il fuoco nemico. Uork Amba, 27 febbraio; Debek Amba, 28 febbraio 1936-XIV.» — 15 dicembre 1936
  • Croce di guerra al valor militare «1° seniore comando raggruppamento camicie nere 23 marzo – Animato da grande entusiasmo, benché ammalato chiedeva e otteneva di seguire un’azione del suo raggruppamento camicie nere e, con la sua presenza, sapeva infondere ardire e aggressività nei reparti lanciati all’attacco. Sswinjuka (fronte russo), 12 settembre 1941.» — 10 gennaio 1951
  • Medaglia di benemerenza per i volontari della guerra italo-austriaca 1915-1918
  • Medaglia commemorativa della guerra italo-austriaca 1915-1918
  • Medaglia interalleata della vittoria
  • Medaglia a ricordo dell’Unità d’Italia 1848-1918
  • Medaglia di benemerenza per i volontari della campagna dell’Africa Orientale 1935-1936
  • Medaglia commemorativa delle operazioni militari in Africa Orientale 1935-1936 (ruoli combattenti)
  • Croce commemorativa del Corpo di Spedizione Italiano in Russia

Fonti  Wikipedia